L’Ordine di Malta Ungheria: si tocchi la ferita aperta della Siria, lo indica Papa Francesco
Thaddeus Jones – Città del Vaticano
“Uno dei compiti più importanti è aiutare i siriani a creare una possibilità reale di tornare a casa.” Dániel Solymári, dal 2010 responsabile delle relazioni internazionali del Servizio di Carità ungherese dell’Ordine di Malta, conosce bene il Medio Oriente, così come l’Africa subsahariana, dove a lungo è stato impegnato nel campo dello sviluppo internazionale fornendo aiuto di emergenza e servizi di reinsediamento per i rifugiati e migranti in fuga da guerre, povertà e disastri naturali. Della gravissima crisi umanitaria in Siria, dove appunto lo Smom è presente con una ampia rete di servizi umanitari, Solymári parla con Vatican News-Radio Vaticana, spiegandone la drammatica situazione e descrivendo ciò di cui la gente ha maggiormente bisogno, soffermandosi però anche sugli aspetti positivi e sui progetti, tra cui il reinsediamento di 200 famiglie sfollate interne nella città di Homs, la ristrutturazione delle loro case e un altro programma tra Aleppo e Damasco a sostegno delle famiglie e delle micro-imprese.
Dániel Solymári è un esperto in progetti di sviluppo internazionale, un accademico e un diplomatico umanitario, ha pubblicato diversi libri, l'ultimo dei quali parla della politica migratoria del Papa a favore dei rifugiati e dei migranti. Un mese prima del viaggio apostolico in Ungheria, nell’aprile del 2023, Francesco gli ha conferito l’onorificenza dell’Ordine di San Silvestro, il più antico riconoscimento della Santa Sede ai laici, dopodiché ha ricevuto la Croce di cavaliere dell’Ordine al Merito ungherese.
Papa Francesco ci ha chiesto di ricordare la Siria, nel 13mo anno di conflitto. Il Servizio di Carità ungherese dell’Ordine di Malta è stato particolarmente attivo in Siria. Com’è la situazione oggi e lei cosa ha potuto riscontrare nel corso delle sue visite in quel Paese mediorientale?
Mi commuove sempre la sensibilità di Papa Francesco verso la Siria e in generale verso le aree del mondo che sono in sofferenza. La Siria è davvero una ferita aperta e particolarmente grave con la quale dobbiamo essere disposti e capaci di entrare in contatto, come ha detto il Papa nella Fratelli tutti. Naturalmente si tratta di un processo molto complesso e difficile poiché la Siria continua ad essere terreno di sfida. Quel Paese non suona bene né a Bruxelles né a Washington, le sanzioni occidentali sono ancora in vigore; le deroghe umanitarie sono incomplete e le esenzioni non sono di carattere illimitato. Gli ostacoli politici nei confronti del governo centrale rendono molto difficile alleviare le sofferenze della popolazione. Lo abbiamo visto di recente durante i terremoti in Turchia e in Siria: scarso aiuto occidentale arrivato nel Paese, se mai arrivato. Effettuare bonifici bancari verso la Siria è ancora difficile, praticamente impossibile, e l’economia del Paese si trova in uno stato catastrofico. Nel 2023 l’inflazione è stata del 120-130% con un conseguente massiccio aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, compreso il cibo che incide non solo sulla qualità della vita e sulla stabilità sociale delle persone, ma anche sulla loro salute mentale. La vita quotidiana presenta molte sfide: è difficile accedere al carburante perché le stazioni di servizio sono vuote; ci sono frequenti interruzioni di corrente; in alcune aree c’è un notevole rischio di infezione e in molte zone del nord, dell’est e del sud sussistono gravi rischi per la sicurezza. Lentamente l’inverno sta per finire. Tuttavia, il freddo ha messo a dura prova la popolazione, soprattutto i bambini e gli anziani che hanno sofferto molto nelle case prive di riscaldamento. Purtroppo, seppure comprensibilmente, la guerra in Ucraina – praticamente fin dai primi giorni – ha attirato l’attenzione dei più, con gravi ed immediate conseguenze.
Nonostante tutto questo ci sono tendenze positive?
Nonostante tutto ciò oggi si parla già di ripresa, di normalizzazione e di consolidamento in relazione alla Siria, sia in termini di contesto accademico e politico, sia riguardo allo sviluppo internazionale. E non solo a livello teorico. Anche gli Stati del Golfo, inclusa l’Arabia Saudita, e con la Lega Araba, si stanno impegnando nuovamente con la Siria. Anche la comunità internazionale sta seguendo sempre più questa strada. La Siria è sopravvissuta alla guerra, ma a un costo terribile. Oltre alla popolazione civile, inoltre, le principali vittime della guerra sono state le comunità religiose cristiane che hanno subito danni ingenti alle loro infrastrutture, alle risorse materiali e umane a causa della loro fragilità e delle limitate capacità di autodifesa. Eppure, lavorando con loro, vedo che stanno facendo del loro meglio per sopravvivere e forse uscire rafforzati da questa crisi. Un esempio unico è la Chiesa greco-cattolica melchita guidata dal patriarca Youssef Absi: nonostante tutte le perdite, la loro comunità non solo è sopravvissuta, ma ora è in grado di prosperare. Sta costruendo, sviluppando e rafforzando la sua rete parrocchiale. Sta cercando di convincere a restare e indurre a tornare i giovani, i rifugiati, coloro che sono fuggiti all’estero. Non dimentichiamolo: la reale possibilità di un nuovo inizio esiste solo se le condizioni all’interno del Paese lo consentono. I melchiti siriani sono particolarmente attivi in questo senso. Ovviamente, hanno pagato a caro prezzo. Non dimenticherò mai quando stavamo evacuando le persone durante il terremoto del 2023, quando, anche in risposta all'appello di Papa Francesco, i melchiti aprirono le loro istituzioni ecclesiastiche ai rifugiati, noi abbiamo interrotto l'evacuazione per partecipare alla cerimonia funebre di padre Imad Daher di Aleppo rimasto sotto le macerie...
Dall’Europa come si può aiutare le persone in questa situazione complessa?
La situazione internazionale è molto complessa e richiede allo stesso tempo saggezza e coraggio. In relazione alla Siria è molto facile che una persona venga fraintesa all'interno della comunità internazionale. Tuttavia, il Servizio di carità ungherese dell’Ordine di Malta e l’Ungheria in generale mostrano particolare sensibilità verso la Siria. Penso che – forse per esperienza storica – abbiano intuito qualcosa dal profondo delle loro sofferenze. Il Programma ‘Ungheria Aiuta’ fornisce, anno dopo anno, finanziamenti molto significativi per i programmi umanitari in Siria e anche per la sopravvivenza delle Chiese e delle comunità religiose locali. Io stesso ho gestito un gran numero di progetti, alcuni di portata significativa: abbiamo costruito ospedali, farmacie, coordinato corridoi umanitari, rafforzato Chiese e fornito servizi sanitari di base in tutto il Paese. Tutto ciò è servito a uno scopo: aiutare a livello locale poiché l’assistenza dovrebbe essere fornita laddove sorgono i problemi e le possibilità di ritorno o di sopravvivenza dei rifugiati esterni e interni devono essere aumentate. Ho sperimentato io stesso come, nonostante il gran numero di rifugiati in fuga dal Medio Oriente verso l’Occidente, un numero significativo di queste persone desiderasse vivere ancora nel proprio Paese. Credo che questo sia particolarmente vero per i siriani. Non è un caso che ci siano 6-7 milioni di sfollati interni che vivono ancora nel Paese. Adesso uno dei compiti più importanti è aiutarli a creare una possibilità reale di tornare a casa.
Al momento quale potrebbe essere il modo migliore per aiutare le persone e arginare il bisogno di fuggire verso altri Paesi?
La fuga può essere giustificata per motivi umanitari o per altri motivi: in queste situazioni aiutare è un dovere umano. Si tratta di un processo doloroso e delicato durante il quale il rifugiato è esposto a pericoli provenienti da tutte le direzioni. E spesso ci vogliono generazioni perché le ferite della fuga di una famiglia si rimarginino. E non abbiamo nemmeno menzionato le legittime esigenze del Paese ospitante in cui il rifugiato cerca di integrarsi. Purtroppo vedo pochi esempi in cui l’integrazione viene affrontata con serietà, tali programmi in genere terminano in pochi mesi. In Siria, attualmente, sto coordinando diversi programmi che mirano a sostenere gli sfollati interni e la popolazione locale in difficoltà affinché possano rimanere nel loro Paese. Abbiamo appena terminato un grande progetto agricolo nella regione dell'Hauran meridionale che vede aumentare l’autosufficienza della diocesi locale dal 15-20% al 60-70%. Abbiamo reinsediato 200 famiglie sfollate interne nella città di Homs e rinnovato le loro case, e abbiamo appena lanciato un programma tra Aleppo e Damasco per sostenere le famiglie e le micro-imprese. Quindi ci sono esempi molto positivi e di successo.
Voi assistete i rifugiati che arrivano in Europa ma aiutate anche coloro che desiderano tornare a casa, cosa che anche il Papa ha riconosciuto come importante, come si legge nel messaggio della Giornata Mondiale dei Migranti di quest'anno…
Papa Francesco, infatti, dà forza e rafforza l’impegno delle organizzazioni religiose. Al Servizio di Carità ungherese dell’Ordine di Malta il nostro lavoro è duplice: sosteniamo l’integrazione dei rifugiati che sono arrivati in Ungheria e appoggiamo quelli che desiderano vivere e prosperare nei loro Paesi. Questo nuovo schema di integrazione che abbiamo sviluppato può richiedere a volte un anno e mezzo, anche due, e in tutti i casi prevede accompagnamento personale e tutoraggio. Che si tratti di un modello di successo lo si capisce dal basso numero di persone che lasciano l’Ungheria dopo il completamento del programma. In diverse località si continua a fornire assistenza locale. Ad esempio abbiamo lanciato un programma ideato per le persone che vivono nelle baraccopoli del Kenya, tramite il quale si è riuscito a spezzare realisticamente la spirale di povertà nelle baraccopoli urbane. Nel corso di due anni abbiamo lavorato con 50 famiglie. Oggi loro vivono una vita indipendente. Una vita povera, ma di qualità. Ecco un’altra cosa che tante persone non vogliono ammettere: ci sono valori nella povertà e c’è differenza tra povertà e miseria. Mentre nella prima è presente un potere coesivo, la seconda favorisce solo la segregazione. Ma si tratta di una questione tecnica che va contro certi approcci economici secondo i quali la povertà è l’assenza di qualcosa e come tale non può essere positiva.
Come si può aiutare in questo contesto complesso di sanzioni e sfide politiche?
Ormai l'assistenza umanitaria, lo sviluppo internazionale o il lavoro con i rifugiati sono attività professionalmente consolidate che sono studiate ed insegnate ad alto livello. Per me la chiave sta nella dualità tra presenza sul campo e riflessione accademica. Oggi tutti i programmi che coordino sono corredati da ricerche e tutti i nostri progetti sono documentati e pubblicati con rigore scientifico. E ancora una cosa: i metodi dovrebbero essere resi accessibili. Inoltre, il lavoro umanitario e la diplomazia umanitaria o religiosa sono tra i settori professionali più delicati. In particolare si differenziano ad esempio dalla diplomazia classica o convenzionale, in quanto richiedono coraggio di agire da parte di tutti coloro che operano sul campo. Bisogna andare dove c’è il problema, bisogna essere presenti, come ha detto Papa Francesco, bisogna toccare quelle ferite particolari. Come ci ha ricordato in uno dei suoi discorsi durante la sua ultima visita in Ungheria: non basta inviare aiuti, bisogna toccare la persona bisognosa. L’ho sperimentato in molte occasioni. Non importa quanto fosse significativo il programma in cui ero coinvolto, le persone erano molto grate per il semplice fatto che andassimo a trovarle. Questo le ha fatte sentire che non erano state dimenticate. Incontrarle è uno degli aspetti più importanti dell'impegno di solidarietà. Tuttavia, gli attori cristiani hanno anche una responsabilità aggiuntiva, direi maggiore. Dobbiamo, infatti, essere in grado di confortare le persone anche quando noi stessi abbiamo bisogno di conforto e di aiuto. Ma spesso questo richiede coraggio, coraggio di agire.
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