Carcere, il vescovo Trasarti: l’Eucaristia strumento di reinserimento
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Il venerdì alle 10 – l’orario può variare a seconda delle esigenze dell’istituto – tutto è pronto per i colloqui: c’è chi gli chiede un aiuto concreto, chi una parola di conforto, altri passano soltanto per scambiare un sorriso o un cenno del capo da lontano; la domenica alle 9, puntuale, la Messa, “per portare il Vangelo e l’Eucaristia, i due strumenti che abbiamo come Chiesa per guidare i ristretti verso la speranza e verso il ritorno in società”. Da un anno a questa parte è questa la vita che fa monsignor, anzi, don Armando Trasarti, vescovo emerito di Fano, Fossombrone, Cagli e Pergola dentro e fuori la casa circondariale di Fermo, dopo che il vescovo attuale, monsignor Rocco Pennacchio, gli ha proposto questo incarico: “È la mia obbedienza al vescovo e a Gesù che ama particolarmente chi soffre”, spiega.
Tra dentro e fuori è solo una questione di fortuna
L’amore di don Armando per il carcere e per chi lo abita, però, ha radici lontane, dell’epoca in cui era vescovo. Nella sua diocesi, infatti, ricadeva la casa di reclusione di Fossombrone, soprannominata ‘supercarcere’ perché comprendente una sezione del regime 41 bis, il cosiddetto ‘carcere duro’. “All’epoca c’erano circa 200 detenuti nella Massima Sicurezza, persone, non delinquenti, io non sono un giudice – racconta a Radio Vaticana - Vatican News – ricordo che era il Natale del 2007 e uno di loro mi ha aggredito, con affetto ma anche con durezza, dicendomi: ‘Vescovo, ma a lei l’hanno mai abbracciato da piccolo?’. Sono rimasto sconvolto…”. Da quell’incontro è nata un’omelia che don Armando ha pronunciato a Messa in carcere e che è rimasta storica: “Ho detto semplicemente che non sono migliore di loro, sono solo stato più fortunato perché da piccolo qualcuno mi ha abbracciato – ricorda – anche il Papa nella Christus vivit ci esorta a dire a tutti che Dio ci ama perché chi si sente amato, nella vita, riesce a fare il bene. Allora ho spiegato ai detenuti che quella fortuna che avevo avuto più di loro nella vita l’avrei messa a servizio del carcere e di tutta la diocesi”.
Il carcere come parrocchia della diocesi
Da allora don Armando non smette di ripetere ai detenuti che vuole loro bene “in nome di Gesù”, ma soprattutto non smette di portare loro il più bel dono che possano ricevere: la dignità: “Io non sono un giudice, sono già stati giudicati dagli organi competenti – afferma – io rappresento la Chiesa e la Chiesa non giudica, ma accompagna, consola e, dove può, aiuta a ricostruire”. È così che il vescovo si è conquistato l’amore e il rispetto dei ristretti, dimostrandolo lui per primo e lo ha fatto una volta in più con l’esempio e la presenza costante, considerando il carcere alla stregua di qualsiasi parrocchia della sua diocesi: “Il territorio deve sapere che ‘dentro’ c’è una comunità parrocchiale che ha le stesse caratteristiche delle altre, perché i detenuti sono persone reali e come io mi organizzo per i ritiri con i giovani, per le cresime ecc., così ho iniziato a organizzarmi regolarmente anche per visitare i detenuti”.
Una missione che è davvero per tutti
Sappiamo che negli istituti di pena italiani la presenza di detenuti stranieri è massiccia, così chiediamo a don Armando com’è nella sua realtà di Fermo: “Su circa 55 ristretti gli stranieri non cristiani sono circa una decina – risponde – ma aiutiamo tutti, non abbiamo pregiudizi, come d’altronde non li hanno loro: spesso anche gli stranieri e non cattolici mi ringraziano della presenza, dicono che il mio sorriso dona loro tranquillità perché sanno che non vengo lì a giudicarli. Qualcuno viene pure a Messa…”. E poi c’è il lavoro con il personale, l’altra metà della popolazione carceraria: “Ma lo sa che tutti e sei gli istituti di pena delle Marche sono diretti da donne? E lo sa perché? – chiede – perché le donne hanno il dono della maternità, dove ci sono loro, tutto va meglio. Da noi a Fermo anche la dirigente di polizia penitenziaria è donna”. Don Armando pone l’accento sulla difficoltà e la delicatezza di questo lavoro: “Ogni mese la polizia penitenziaria in Italia sventa 12 tentativi di suicidio tra i detenuti, ma purtroppo fanno notizia solo i detenuti che riescono nell’intento di togliersi la vita – conclude – il mio lavoro con il personale penitenziario è fatto di rispetto, di incoraggiamento, di sguardi: devono essere riconosciuti anche loro nella dignità perché si può lavorare bene solo se si sta bene”.
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