Morto il vescovo Biguzzi, “un vero testimone del Vangelo” al fianco degli ultimi
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
È scomparso ieri, 1 luglio, a Parma, all’età di 88 anni, monsignor Giorgio Biguzzi, missionario saveriano, vescovo emerito di Makeni, nella Sierra Leone. Il religioso era stato ricoverato dopo due mesi trascorsi nella Casa madre della congregazione, nella stessa città emiliana. Lo conosceva bene padre Giulio Albanese, comboniano, giornalista, fondatore dell’agenzia Misna, collaboratore di numerose testate e oggi anche direttore dell’Ufficio per le Comunicazioni Sociali della Diocesi di Roma, che a Radio Vaticana – Vatican News racconta della bella amicizia instaurata con lui e del suo “impegno deciso, in favore della giustizia” nella Sierra Leone, negli anni della “guerra dei diamanti”. Uno straordinario pastore, lo definisce padre Albanese, attento agli ultimi e al fianco dei giovani, “un vero testimone del Vangelo” che ha messo in pratica ciò che Papa Francesco raccomanda, costantemente: stare dalla parte dei poveri.
Il servizio nella Chiesa
Nato a Calisese, in provincia di Cesena, il 4 febbraio 1936, era entrato nel Seminario Minore nel 1947 e aveva proseguito gli studi nel Seminario Regionale di Bologna, lasciato dieci anni dopo per entrare nel noviziato dei saveriani. Ordinato sacerdote nel 1960, dopo alcuni mesi trascorsi nella comunità Saveriana di Udine e due mesi in famiglia, era stato inviato nella Circoscrizione degli Stati Uniti, dove era rimasto fino al 1973 ricoprendo diversi incarichi. Era stato mandato nella Sierra Leone nel 1974 e dopo dieci anni era stato richiamato in Italia. Nel 1987 era stato eletto vescovo di Makeni. Consacrato il 6 gennaio da Giovanni Paolo II nella Basilica di San Pietro, a Roma, aveva svolto il suo ministero episcopale fino al 2012. Tornato in Italia si era impegnato in vari servizi e più recentemente, a motivo della sempre più precaria salute, era stato trasferito nella casa di cura “Fraternità San Lorenzo” di San Pietro in Vincoli. Il 29 aprile di quest’anno, come da sua richiesta, era stato destinato alla Casa Madre, poi il ricovero in ospedale.
L’amore per la Sierra Leone
Monsignor Biguzzi amava Makeni e il suo popolo e quando tornava in Italia coinvolgeva persone e gruppi per trovare aiuti di ogni genere. “Il Signore, che sceglie le cose piccole e inutili per i suoi disegni, mi ha chiamato ad essere Testimone del Cristo Risorto nella Chiesa di Makeni - scriveva in una lettera al suo padre generale non appena nominato vescovo -. È un compito davanti al quale mi sento smarrito e che, tuttavia, vedo come una chiamata ad un servizio più generoso e ad un amore più intenso per Cristo e per i fratelli”. Nella missione della Sierra Leone, dove i saveriani hanno creato cappelle e scuole, adoperandosi anche nell’assistenza sanitaria, monsignor Biguzzi, mente acuta e attento osservatore dei processi culturali in atto nel mondo, ha promosso la nascita dell’Università cattolica e si è prodigato, in particolare, nella mediazione nei conflitti e nella riabilitazione dei bambini soldato che nel 2000 ha portato in piazza San Pietro. Ha parlato e scritto dell’orrore della “guerra dei diamanti” e della corruzione ed è stato un uomo di relazioni anche con cristiani di altre Chiese e fedi.
L’impegno per la pace
Come membro del Consiglio interreligioso sierraleonese, ha seguito le trattative per l’accordo di pace tra il presidente Ahmed Tejan Kabbah e il leader RUF (Fronte unito rivoluzionario) Fodai Sankoh, e per questo nel 1999 è stato insignito del Premio Cuore amico. Per la sua autorevolezza ha giocato un ruolo determinante anche nella liberazione delle Missionarie di Maria rapite dai ribelli nel 1995; lui stesso è stato assalito e detenuto per alcuni giorni. Lo scorso anno, già costretto alla carrozzina, è voluto tornare a Makeni per prendere parte alla consacrazione di Bob John Hassan Koroma, primo vescovo sierraleonese dopo un sessantennio di presuli ordinari della congregazione dei saveriani.
Degli anni nella Sierra Leone, padre Albanese rievoca, in particolare, l’incontro con i ribelli del RUF e racconta dei due ragazzi “strappati” ai ribelli e riscattatisi grazie all’aiuto di monsignor Biguzzi e dei suoi confratelli saveriani.
Qual è il suo ricordo personale di monsignor Biguzzi?
È difficile, in poche parole, anche perché in questo momento sono travolto da un magma di pensieri e di sentimenti. È difficile mettere in ordine. C'è stato un episodio che non dimenticherò mai. Era il 12 marzo 1999, era il giorno del mio compleanno, mi trovavo a Freetown e il nostro intento era quello di poter avere un contatto diretto con i ribelli del RUF, che era il gruppo di Foday Sankoh (guerrigliero, leader e fondatore del RUF, ndr), erano ribelli che combattevano sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. La stragrande maggioranza di questi combattenti erano minori, bambini, che erano stati sequestrati nei villaggi, sottoposti a un vero lavaggio del cervello ed erano stati costretti ad imbracciare un fucile e commettere crimini indicibili. Proprio perché in quel frangente si stavano aprendo degli spiragli di negoziazione, essendo monsignor Biguzzi il presidente, il chairman, dell'Interreligious Counsel - che riuniva assieme non solo i cattolici, ma anche la Chiesa anglicana e le comunità islamiche presenti in Sierra Leone - decise di andare a incontrare i ribelli e io mi accodai, anche perché ero in Sierra Leone proprio perché volevo partecipare a questo incontro. Insieme a noi c'era il comandante delle Nazioni Unite in quel momento in Sierra Leone, Paese devastato dalla guerra civile, ricordiamolo. È stata un'esperienza scioccante, perché noi ci siamo consegnati, abbiamo superato la linea di confine, la Green line, abbiamo camminato per circa 500 metri, neanche un chilometro, poi, improvvisamente, sono sbucati dall'erba questi ribelli, e davvero, sì, abbiamo avuto paura, lo confesso, anche perché si vedeva che avevano assunto stupefacenti, erano imprevedibili e agguerriti. Si sono posti nei nostri confronti, almeno inizialmente, in un atteggiamento di grande sfida. Io ricordo che Giorgio - perché così lo chiamavo, perché era un vescovo singolare, mi disse fin dall'inizio: “Io sono Giorgio e tu sei Giulio, siamo tutti fratelli” - monsignor Biguzzi - Giorgio per gli amici - mi disse: “Dobbiamo mantenere la calma, dobbiamo far vedere che non siamo intimiditi dal loro modo di fare”. Mi ricordo che uno di questi giovani si avvicinò a me e mi puntò il mitragliatore sulla pancia e io gli dissi: “Senti, prima presentiamoci”. Lui mi guardò e mi disse “Ok”. E il vescovo mi disse: “Vai avanti, cerca di occuparlo nella conversazione”. E allora abbiamo cominciato a parlare. La cosa interessante è che mi accorsi che appesa al collo aveva la croce di monsignor Ganda. Monsignor Ganda, allora, era l'arcivescovo di Freetown che i ribelli poche settimane prima avevano sequestrato per alcuni giorni, poi l'avevano rilasciato, ma gli avevano portato via questa croce pettorale. Biguzzi mi disse: “Vedi se riesci a fartela restituire”. Ricordo che mi chiese delle sigarette, poi abbiamo cominciato a parlare, mi ha chiesto se avevo delle caramelle e insomma il gelo iniziale è venuto meno. A un certo punto mi ha detto: “Ti restituisco questa croce - se l'è tolta e me l'ha data in mano - però - mi tu mi devi fare un regalo, io voglio venire con voi”. C'era stato un accordo per cui i ribelli avevano accettato di rilasciare alcuni di questi “baby soldiers”, e questo ragazzo - avrà avuto 12 o 13 anni, non di più - i loro comandanti ce lo lasciarono. Quindi, questo ragazzo è tornato a casa con noi, ed è tornato a casa con noi anche un altro ragazzo molto più piccolo che si chiamava Caporal Highway. Tutti e due, poi, hanno avuto un futuro brillante: Caporal Highway si è laureato in ingegneria a Freetown grazie ai missionari saveriani che avevano allestito una scuola per loro e poi una sorta di ostello perché potessero frequentare gli studi una volta superata la scuola primaria, l’altro, anche lui, come dire, si è convertito e addirittura ha conseguito un diploma in una scuola tecnica, diventando, poi, un operaio specializzato. Quell'esperienza che abbiamo vissuto insieme, che ci ha permesso di parlare, di incontrare, i capi ribelli del RUF, fu fondamentale in quel frangente, perché rappresentò una sorta di disgelo in un momento estremamente critico, quando sembrava che il rapporto, le relazioni, tra i governativi e i ribelli fossero insanabili. Invece, devo dire che quell'esperienza ci fece capire che c'erano dei margini per le trattative.
In quale occasione vi siete conosciuti?
Ci eravamo conosciuti qualche tempo prima, in Italia, perché io ero direttore dell'agenzia Misna, di cui sono stato anche fondatore, che era l'agenzia di stampa delle congregazioni missionarie. Lui mi venne a trovare e da allora è nata un'amicizia molto interessante, perché lui era diventato, peraltro, la mia fonte privilegiata in Sierra Leone. Quando io, da Roma, avevo bisogno di ricevere notizie sulla situazione militare, le emergenze umanitarie in Sierra Leone, lui era il mio termine di riferimento e, solitamente, eravamo in contatto attraverso il telefono satellitare, che ci costava una barca di soldi ma che ci permetteva davvero di dare voce a chi non ha voce.
L'impegno di monsignor Biguzzi nella Sierra Leone quali frutti ha fatto maturare oggi?
Il primo frutto è stato la pace. Io direi che quella è stata l'impresa più impegnativa, perché se c'è stato un uomo che ha creduto fino in fondo nel dialogo, nella riconciliazione, quando nessuno ci credeva, è stato proprio lui. I ribelli occupavano le zone diamantifere e quindi erano un soggetto destabilizzante, proprio perché, dietro le quinte, in quel frangente, in Sierra Leone si celavano interessi legati al business di queste pepite. Quello che è davvero scandaloso è che c'è stata tanta umanità dolente, immolata, come dire, sull'altare dell'egoismo umano, perché c'era questo business estremamente fiorente. D'altronde la Sierra Leone, Biguzzi l'aveva ben descritta “inferno e paradiso”. La popolazione, in fondo, poteva essere più ricca degli abitanti del Canton Ticino, ma per ragioni di ordine storico, per ingiustizie e sopraffazioni di vario genere, erano i civili a pagare il prezzo più alto. Quello che mi ha colpito di Biguzzi è stato questo suo impegno, anche deciso, in favore della giustizia, perché è evidente che il business illecito di diamanti rappresentava un fattore altamente destabilizzante, ma non solo per la Sierra Leone, anche per i Paesi limitrofi, mi viene in mente la Liberia, tanto per citare un altro esempio, e lui non si è mai tirato indietro. Era fermamente convinto che la Dottrina Sociale della Chiesa doveva entrare nella pastorale ordinaria della sua Chiesa, e questo lo ha dimostrato con i fatti, prima ancora che con le parole. Poi è stato uno straordinario pastore. Lo ricordano ancora i fedeli della diocesi di Makeni. Era sempre in prima linea, dalla parte degli ultimi, un uomo che si è prodigato anche per promuovere l'istruzione, l'alfabetizzazione, che rispondeva ai bisogni dei ceti meno abbienti, impegnatissimo nel servizio della Caritas a favore degli ultimi. Insomma, è stato un vero testimone del Vangelo.
Quale esempio ci lascia monsignor Biguzzi?
C'è una lezione che troviamo riassunta in una battuta di Nostro Signore Gesù Cristo, riportata negli Atti degli Apostoli: nella vita c'è più gioia nel dare che nel ricevere. È sempre stato un uomo generoso, è sempre stato un uomo che ha vissuto il servizio nei confronti degli ultimi, dei poveri. Davvero ha messo in pratica quello che Papa Francesco raccomanda, direi, ferialmente, che la nostra presenza come cristiani non può essere neutrale: dobbiamo stare dalla parte dei poveri, degli ultimi. E Biguzzi lo ha dimostrato nella ferialità, nella quotidianità della vita.
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