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Marco Damilano Marco Damilano 

Damilano: senza il mondo cattolico la democrazia perde una linfa vitale importante

Alla vigilia dell'assemblea diocesana di Roma, il 25 ottobre a San Giovanni in Laterano, il giornalista, che presenterà al Papa il percorso "(Dis)uguaglianze", lavoro preparatorio fatto nelle periferie, sottolinea ai media vaticani la necessità di "riportare il messaggio delle beatitudini dentro il dibattito pubblico". Dopo una stagione di disaffezione dei movimenti ecclesiali verso la politica, matura il coraggio di partecipare, in un pluralismo di voci

Antonella Palermo - Città del Vaticano

Il contributo del mondo cattolico è necessario al dibattito pubblico ed è il momento che affiori e lo si condivida, superando logiche di deleghe e dinamiche di chiusura e arroccamenti improduttivi. Ne è convinto il giornalista Marco Damilano che, domani 25 ottobre nella Basilica di San Giovanni in Laterano alle 17.30 alla presenza di Papa Francesco, con l’aiuto di due testimoni, offrirà ai partecipanti dell'assemblea diocesana, inclusi rappresentanti delle istituzioni e della società civile, una sintesi del percorso “(Dis)uguaglianze”. Un percorso partito da febbraio in occasione del 50.mo anniversario del convegno “La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella città di Roma”, noto come convegno sui “mali di Roma”, che si è svolto attraverso una serie di incontri in luoghi periferici (la sede succursale dell’IIS Edoardo Amaldi a Castelverde; il policlinico di Tor Vergata; il residence Bastogi; la cooperativa “La Nuova Arca” a Castel di Leva) dedicati a diversi ambiti dove più forti sono le dinamiche di esclusione e disparità nella capitale (la scuola, la sanità, l'abitare, il lavoro). Sono così emerse le voci di studenti, operatori sanitari, associazioni del territorio, economisti ed esperti. Ad introdurre l'incontro sarà il vicegerente monsignor Baldo Reina, a suggellarlo sarà il vescovo di Roma con un suo intervento. 

Ascolta l'intervista a Marco Damilano

Damilano, entro subito nel cuore dei temi che il lavoro preparatorio dell’assemblea diocesana ha portato a galla: la solitudine. Secondo il vicepresidente della Fondazione Di Liegro è il moltiplicatore della fragilità. È d’accordo?

Sono d’accordo. È un problema che scienziati, economisti, politici, psicologici, psichiatri cominciano a identificare sempre di più come una grande questione collettiva a cui bisogna dare una risposta tutti insieme. In una città come Roma la solitudine ha un impatto sulle vite quotidiane, sul modo di affrontare le questioni di tutti perché erode la fiducia e la speranza, le quali sono delle chiavi con cui si può combattere la solitudine, non solo sul piano della singola persona ma anche sul piano collettivo.

Ciò vuol dire che non si può parlare di una Roma davvero inclusiva? Insomma, come percepisce la dimensione del “noi” nella capitale?

È una dimensione che negli ultimi anni è venuta a mancare sempre di più, si è indebolita. Roma ha una vocazione di città universale, di cuore del Mediterraneo, di capitale della cristianità universale, ma negli ultimi decenni le trasformazioni sociali di questa città - che sono lo specchio, la sintesi, delle trasformazioni del nostro Paese e non solo - hanno reso molto più fragili i legami tra le persone. La Chiesa di Roma ha ascoltato nel percorso di questo anno la povertà educativa, sanitaria, abitativa, occupazionale. Quest’ultima non riguarda solo avere un posto di lavoro ma una situazione lavorativa che corrisponde al dettato della Costituzione, alla realizzazione della personalità umana. In tutti questi ambiti il carattere inclusivo della città è come smarrito e rimetterlo al centro del dibattito a partire anche da questa assemblea diocesana, che ha l’ambizione di riportare la voce di chi non ha voce e quindi anche di chi non si sente dentro un modello di sviluppo escludente, credo sia già un primo passo per tornare a questa vocazione.

Il tasso di dispersione scolastica in Italia supera il 10%, per cui il Paese resta fanalino di coda in Europa per continuità nella formazione. Come si spiega questo fenomeno nel 2024? Sono i modelli educativi poco attrattivi, oppure c’è un malessere, una inquietudine di fondo che attraversa i giovani e che il mondo degli adulti non riesce a intercettare e a trasformare?

Abbiamo ignorato tante ferite dei giovani, quelle invisibili del post Covid su cui gli specialisti provano a dire tante cose: la crescita dei disturbi di tipo psicologico soprattutto tra le ragazze. C’è l’incapacità o l’inadeguatezza nell’affrontare queste richieste di aiuto. La scuola è la palestra dei futuri cittadini ma è anche il luogo pubblico dove i ragazzi e le ragazze hanno la prima risposta alle loro domande e non può essere una risposta fatta solo di nozioni apprese ma deve essere - come è stato per le generazioni precedenti - il luogo dell’incontro con l’altro. Nonostante l’impegno, la generosità e la competenza di tantissimi insegnanti in tutte le scuole di ogni ordine, c’è una società che ha dimenticato questo ruolo della scuola. Quindi diventa molto complicato per tutte le agenzie educative, compresa la famiglia, proporsi in questi termini se tutto il resto va nella direzione opposta. Il tasso di abbandono fa parte di quel fenomeno di assenza di un orizzonte, assenza di un futuro, assenza di fiducia nelle istituzioni, in quello che si fa, in ciò che parla a nome di tutti. La scuola, oltre a tutte le difficoltà di tipo organizzativo, funzionale, relativo allo stato fisico di molti edifici, è un luogo sempre più mortificato e questa mortificazione arriva ai ragazzi e alle ragazze, arriva la sensazione di essere in un luogo che per il resto della società non è più il cuore ma è molto laterale, per non dire marginale.

Si accennava al tema lavoro. Tra le proposte emerse dagli incontri che avete fatto in questi mesi, si è ritenuta per esempio opportuna la costituzione un Osservatorio permanente sul lavoro coordinato dell’ufficio della Pastorale sociale, del lavoro, della custodia del creato. Come guarda a uno strumento come questo, pensato per monitorare e porre all’attenzione le questioni del rapporto su lavoro e criminalità, del lavoro povero? Cos’altro suggerisce? Soprattutto, cosa è fallito finora per cui siamo arrivato a questo punto?

Il lavoro è diventato una statistica. Le statistiche sull’occupazione in termini assoluti vanno bene. Nella città di Roma vanno particolarmente bene però, se si va a vedere la distribuzione di questo lavoro, il reddito proveniente da lavoratori usciti dal mercato, per esempio i pensionati, è molto elevato, il che vuol dire che la forza di lavoro attiva ha un reddito medio più basso. Sul piano qualitativo, i lavori che sono stati prodotti sono precari, sottopagati, mal utilizzati e comunque non corrispondo a una centralità di vita come accadeva nelle stagioni passate. Ora, le stagioni non si ripetono: un lavoro che dava una piena realizzazione fino alla fine della nostra vita non appartiene al nostro tempo, che è un tempo di appartenenze multiple. Quella del lavoro non fa testo: si cambia lavoro molto spesso, si cambiano ruoli, compagni di lavoro, in smart working non si incontra fisicamente il tuo collega… Sono cambiamenti che finiscono per generare relazioni sociali fragili. Allora ben venga un Osservatorio a cui, per quel che riguarda la Chiesa, non spetta né produrre nuovi posti di lavoro né essere il centro studi che ipotizza le future trasformazioni nel mondo del lavoro. Gli spetta sicuramente la questione della persona umana.

Come valuta l’impegno dei movimenti ecclesiali in Italia e a Roma nel dibattito pubblico?

Credo ci sia stata un’assenza dal dibattito pubblico negli ultimi trent’anni, una delega eccessiva alle gerarchie ecclesiastiche, prima, cui è seguita una specie di disaffezione. Per usare uno slogan, siamo passati troppo rapidamente da un’educazione - che a me e alla mia generazione è arrivata - che ci presentava la politica come la più alta forma di carità, e che veniva insegnata come lezione numero uno della dottrina sociale della Chiesa, a una espressione - forse mai detta davvero - che tuttavia suggeriva che la politica fosse una cosa in fondo sporca, che aveva a che fare con dei professionisti della politica: sotto questo profilo c’era una polemica parallela a quella del mondo civile, penso agli anni della casta, dell’antipolitica... C’è stato un messaggio che ha creato una disaffezione di parte del mondo cattolico - ma anche dei movimenti e delle associazioni - rimasti a svolgere il loro compito, prezioso, nella sfera dell’educazione, delle parrocchie territoriali, del volontariato, del terzo settore, ma che hanno sentito che il dibattito pubblico andava da un’altra parte e che era una sfera da cui fondamentalmente era bene ritirarsi. Ora credo che siamo in una fase nuova perché negli ultimi anni - penso alla recentissima Settimana sociale di Trieste dedicata al tema della democrazia, e penso anche al momento che avremo a San Giovanni in Laterano - sta maturando la coscienza che la democrazia, senza una spinta anche del mondo cattolico nelle sue varie articolazioni e nella sua complessità, perde una linfa importante. E in fondo la storia della democrazia italiana del Novecento e degli inizi del Duemila è una storia in cui i cattolici hanno progressivamente preso voce fino ad arrivare a un pluralismo delle opzioni politiche che è una ricchezza. Soprattutto c’è l’esigenza che la democrazia italiana, fragile e per certi versi inaridita nelle sue fonti - e lo dimostra il dato più banale, la partecipazione al voto che via via è venuta meno - ha bisogno di mondi vitali fondati sul concetto di democrazia come partecipazione, non delega, neanche al gruppo dirigente delle associazioni stesse. La democrazia è qualcosa che deve essere vissuto alla base, sul territorio fin dalla sua prima cellula. È la grande lezione del movimento cattolico che ha sempre cercato di tenere insieme una grande aderenza alla realtà, una spinta ideale e un pluralismo di voci. A questo bisogna tornare.

Come evitare le strumentalizzazioni della fede in politica?

Ce ne sono tantissime ma è una tentazione che non bisogna subire, nel senso che ci sarà sempre qualcuno che cercherà di strumentalizzare la fede e il mondo cattolico per la sua parte, però bisogna evitare che per paura di essere strumentalizzati, si resti chiusi in casa o nel tempio. Bisogna avere il coraggio di uscire, di fare anche degli errori, ma tutto questo è sempre meglio di un’assenza, perché restare assenti dal dibattito vuol dire restare assenti dai valori e dalle persone che non si sentirebbero rappresentate dal mondo cattolico e soprattutto dal messaggio delle Beatitudini che è il grande assente dal dibattito pubblico.  

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24 ottobre 2024, 13:00