Libano, Ordine di Malta: vicini a un popolo in fuga per una guerra che non vuole
Francesca Sabatinelli e Marie Duhamel
Non si è mai visto un Libano così, con un milione di sfollati, molti dei quali dormono sui marciapiedi, altri che vengono accolti dalle scuole che offrono un rifugio, ma che non sono attrezzate, le persone non mangiano e non si possono lavare, ed è comparsa la scabbia. Oumayma Farah parla con emozione, trattenendo le lacrime di dolore per una situazione che il suo Paese non ha mai vissuto prima, nonostante, spiega lei stessa, i libanesi “abbiano vissuto il trauma di due occupazioni, quella israeliana e quella siriana; la guerra del 2006; l’esplosione del porto nel 2020 e le ripercussioni di una grave crisi economia sociale e finanziaria”. Eppure, per lei, che in qualità di direttrice della comunicazione dell’Associazione libanese dell’Ordine di Malta ha fatto dell’aiuto umanitario la sua vita, l’oggi è ancora più difficile. E', racconta, "una situazione mai vissuta prima” che, dramma nel dramma, vede persino la competizione tra sfollati interni e i circa due milioni di rifugiati siriani presenti nel Paese, per riuscire ad avere un alloggio nelle scuole o nei rifugi a disposizione. Inoltre, ciò che era un ricordo della guerra civile sta accadendo di nuovo: persone che nonostante la paura del conflitto non lasciano le case per timore che vi si possano trasferire “gli stranieri”.
I libanesi non vogliono la guerra
Oumayma Farah descrive il timore dell’ignoto e l’incertezza nei quali è sprofondato tutto il suo popolo. Nessuno sa “come evolverà questa guerra, ma si deve continuare a guardare avanti”, è sua convinzione, soprattutto lei, nel suo lavoro umanitario. Tuttavia, ormai, non “si vive giorno per giorno, ma di ora in ora”. La paura di tutti è quella di sfociare in una guerra civile che la maggior parte del popolo non vuole. Sono tante le “tensioni interconnesse”, prosegue Farah, nonostante il libanese sia “persona accogliente, che apre le braccia, persona di fede, che sia cristiana o musulmana, e che ha sempre guardato al fratello, oggi si trova combattuto ad accoglierlo, perché questo suo fratello ha trascinato una intera popolazione, un intero Paese, in una guerra che non lo riguarda”. Ciò che fa male, aggiunge, “è la disumanizzazione della comunità internazionale, come quella mostrata di fronte alle immagini arrivate da Gaza. E oggi l’opinione pubblica e la comunità internazionale assistono in silenzio. E questo uccide una seconda volta”. Il suo appello è quello a non dimenticare il Libano, un grido rivolto al mondo intero ma anche alla diaspora libanese, che però “è stata talmente mobilitata che forse non può dare di più”.
Il dramma degli sfollati e l’inverno alle porte
Il ringraziamento di Oumayma è comunque sentito, perché quello libanese “non è un popolo ingrato”, ma oggi bisogna andare oltre e il lavoro quotidiano dell’Associazione libanese dell’Ordine di Malta lo testimonia: tutte le squadre si sono mobilitate in aiuto di chi si trova nei rifugi, inoltre si è alle porte dell’inverno e la situazione è di emergenza. Per ora sono state fermate le unità mediche, così come il lavoro dei centri, nel sud del Paese. Con l’aiuto delle Nazioni Unite sono stati evacuati, dai villaggi di confine con Israele, dipendenti e famiglie, nonostante le resistenze, soprattutto da parte dei cristiani, a lasciare le loro case. “Un mio collega piangeva perché avrebbe dovuto lasciare la famiglia che ha deciso di restare nel villaggio, almeno finché vi saranno altri abitanti - conclude Oumayma – e lui ha capito che forse per i prossimi sei mesi, o per un anno intero, se ci sarà l’occupazione israeliana nel sud, non rivedrà i suoi genitori, sempre se resteranno vivi”.
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