Alternative al carcere, la comunità luogo che cura il cuore dell'uomo
Roberta Barbi – Città del Vaticano
C’è la storia di Giulianone – in tutto 27 anni di pena – che la sera stessa della sua uscita dal carcere dopo la prima condanna a 7 anni è tornato immediatamente a delinquere; poi c’è Paolo che parla della rabbia che monta in cella e che una volta fuori fa da molla per affrontare un delitto ancora più grande; e c’è Gianluca arrivato alla devianza per una violenza che lo ha segnato per tutta la vita. Sono solo alcune delle testimonianze che possono portare gli operatori della Comunità Giovanni XXIII, tra i promotori dell’evento “Oltre il carcere: misure di comunità per una giustizia educativa”, al quale hanno dato un apporto originale e significativo, vista l’esperienza delle Cec – le comunità educanti con i carcerati – che sperimentano da 20 anni: “Il carcere non è una risposta adeguata per molti di quelli che vi sono rinchiusi – dichiara ai media vaticani Giorgio Pieri, responsabile del progetto Cec – la comunità, invece, ha come caratteristica fondante l’obbligo di donarsi agli altri ed è un luogo di cura”.
L’esperienza delle Cec in Italia
Nelle comunità educanti con i carcerati in Italia in cui la Giovanni XXIII ha accolto circa quattromila persone, lavorano i volontari del territorio che spesso intraprendono con gli ospiti un rapporto personale: “Ci si prende cura gli uni degli altri – racconta ancora Pieri – spesso chi commette un atto deviante è una persona ferita e spesso le ferite riguardano violenze, a volte perpetrate in famiglia, la mancanza della figura paterna… bisogna accogliere ogni persona così com’è e accompagnarla verso la libertà interiore per farla tornare a vita nuova”. A un certo punto, però, le persone accolte in comunità devono scegliere se accettare di cambiare oppure tornare in carcere.
Il carcere un deterrente solo teorico
Le storie raccontate dalla Comunità Giovanni XXIII dimostrano come il carcere sia un deterrente solo nell’immaginario collettivo, ma non nella realtà, stando anche ai dati della recidiva in Italia che si attesta intorno al 70%: “Il carcere aumenta la rabbia e la frustrazione – prosegue il referente delle Cec – la pena invece deve tendere a una riabilitazione, perciò devono essere impiegati gli educatori che tirano fuori il meglio da ognuno, attivando processi di crescita perché in fondo, anche le persone che hanno commesso reato sono solo persone che hanno un desiderio di felicità che vogliono soddisfare”.
No ai bambini in carcere
La Comunità Giovanni XXIII ha lanciato un appello affinché percorsi di accoglienza e rieducanti fuori dal carcere siano offerti anche alle donne incinte detenute e alle ristrette che sono mamme e vivono negli istituti con bambini al di sotto di un anno d’età, anche se non tutte possono essere accolte, ad esempio se hanno una condanna superiore ai quattro anni: “Abbiamo una Cec femminile a Savignano dove in questo momento sono ospitate quattro mamme rom con i loro cinque bambini che vanno regolarmente a scuola – dichiara Pieri – ai bambini in carcere si deve dire sempre e comunque no”. Il responsabile delle Cec le definisce ospedali da campo prendendo in prestito le parole di Papa Francesco: “Le nostre comunità sono un luogo in cui ci si occupa del cuore ferito dell’uomo in cui il male cresce se non viene curato – conclude – mi piace pensare che io sono l’infermiere, ma il medico sta lì, nella cappella, ed è l’unico in grado di sradicare davvero il male dal nostro cuore”.
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