Ciad, crisi climatica e povertà. I missionari: il popolo non fruisce dei soldi del petrolio
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Con oltre il 40 percento della popolazione al di sotto della soglia di povertà, il Ciad vive in una sofferenza cronica acuita da danni climatici di una portata mai registrata prima nelle ultime settimane, dai violenti scontri con i gruppi armati dell'integralismo islamico di Boko Haram, dalla difficoltà di gestire un fiume continuo di sfollati in fuga dalla sanguinosa guerra civile nel vicino Sudan. I missionari comboniani presenti nel Paese raccontano la fatica enorme da impiegare in una terra che si mostra al limite della vivibilità soprattutto nei mesi estivi, altrimenti non si riesce a resistere.
I soldi del petrolio vanno in armi o alle multinazionali
Il Ciad è un Paese che gioca un ruolo importante negli equilibri del Sahel, anche per la disponibilità dimostrata ad accogliere i rifugiati, ed i suoi sforzi vanno riconosciuti. Lo ha detto la rappresentante speciale dell'Unione europea per il Sahel, Emanuela Del Re, all'apertura della riunione convocata a N'Djamena con gli inviati speciali Ue nella regione, e con quelli provenienti da Usa, Canada, Regno Unito, Norvegia, Svizzera e Giappone. Che tuttavia sia tra i Paesi più poveri del mondo è un dato di fatto e che dal 2003 il Ciad sia diventato esportatore di petrolio, pur rimanendo il secondo Paese meno sviluppato del pianeta preceduto dal Sud Sudan, è un vulnus aperto da decenni che molto fa preoccupare chi da decenni, a più riprese, si trova in loco per sostenere una popolazione sfiancata.
Uno di questi è padre Renzo Piazza, arrivato qui nel 1982; ci è stato nove anni, seguiti da altri nove anni di assenza e rientrato nel 2000 per dieci anni. Dopo 14 anni, a settembre, ha trovato una capitale irriconoscibile per lui: ingigantita a dismisura, caotica. Del resto ci spiega che nelle capitali africane la popolazione raddoppia ogni dieci anni. "Non trovando più spazio nel centro ci si ferma nelle periferie dove la vita è difficile, senza strade e corrente elettrica. La gente tuttavia preferisce rimanere lì perché la terra costa meno e possono costruire una casetta con il rischio che venga però divelta quando si devono fare dei lavori infrastrutturali". Il missionario racconta che "qui è una fatica tutto, viaggiare, lavorare sotto il sole cocente, con trasferimenti in furgoni che sono delle carcasse. Se non si è capaci di lottare qui non si sopravvive. Da marzo a maggio, poi, è invivibile per il caldo. I soldi vanno quasi tutti alle multinazionali. Una ventina di anni fa - precisa - avevano previsto che una pare dei proventi dalla vendita del petrolio andassero alle generazioni future. Poi invece sono state acquistate armi per garantire la sicurezza. Qualche lavoro pubblico è stato fatto ma in sostanza resta una situazione di grande povertà".
Sostegno all'appello del Papa per la riduzione del debito
Per un Paese come il Ciad, la cancellazione del debito potrebbe avere ripercussioni significative e positive, anche se ciò dipenderebbe dalla gestione dei fondi liberati. Così una donna, parrocchiana di padre Renzo e con un incarico di responsabilità a livello ministeriale, commenta l'appello di Papa Francesco nel messaggio alla Cop29 per la riduzione del debito ai Paesi poveri. Una operazione del genere per un Paese come il Ciad, spiega, dovrebbe funzionare tenendo conto di rafforzare i servizi di base (accesso all'acqua potabile, all'assistenza sanitaria e all'istruzione); sostenere l'agricoltura e la sicurezza alimentare, settori sotto pressione a causa della siccità e del degrado dei terreni (con meno debiti da rimborsare, il governo potrebbe investire maggiormente per migliorare i sistemi di irrigazione o le tecniche di coltivazione); investire nelle infrastrutture (trasporti, energia e comunicazione) così da poter sviluppare il commercio, ma anche il collegamento tra aree rurali e aree urbane; ridurre povertà e disuguaglianze con un'assistenza sociale migliore, in particolare nelle regioni isolate dove l'accesso alle risorse e alle opportunità economiche è limitato.
Inondazioni e rifiuti, oltraggio a una terra deturpata
A peggiorare a dismisura un contesto di privazione come quello del Ciad sono state le recenti inondazioni che, come riferisce padre Piazza, stanno continuando a toccare tante famiglie e che hanno colpito 16 Paesi dell’Africa occidentale e centrale. Il religioso racconta che in capitale "la vita è abbastanza calma, non ci sono segni tangibili rispetto a ciò che si è verificato nelle regioni del lago Ciad". Spiega tuttavia che il rischio di finire allagati si ripete con periodicità sempre più ravvicinata poiché proprio a N'Djamena c'è l'incontro dei due grandi fiumi del Paese e, quando il periodo è più critico, se non ci si ripara con sacchi di sabbia si inondano tanti quartieri. "In certe zone ho visto camion con sabbia per creare barriere. Nel sud dove c’erano campi coltivati i frutti sono andati in malora. La Chiesa ha messo a disposizione terreni che aveva per accogliere chi ha dovuto lasciare le proprie case. Hanno ricevuto sacchi di riso. In questi giorni ci si sta organizzando proprio per provvedere a chi ha bisogno. Sono soluzioni tampone - osserva - ma si dovrebbe avvenire a monte". È evidente, aggiunge, che "siamo di fronte ai danni dei cambiamenti climatici". All'acqua si accompagna l'altro effetto destabilizzante che riguarda i rifiuti: "Le strade sono piene di canali per lo sfogo delle acque ma queste sono piene di immondizie perché non funziona la raccolta. E con il vento, come ora, si addensa pure la sabbia. Con il risultato che tutto è ostruito". Massima apprensione è stata espressa a questo proposito dall'Unhcr, impegnato nell'assistenza immediata e nel sostegno a lungo termine agli sfollati e alle comunità ospitanti: “Gli effetti catastrofici delle inondazioni sono destinati a estendersi ben oltre la stagione delle piogge di quest’anno, aggravando le difficoltà già affrontate dalle comunità vulnerabili”.
Gli attentati di Boko Haram e l'instabilità interna
All'Angelus dell'1 novembre Francesco ha espresso vicinanza ai ciadiani piagati dalle alluvioni, così come si è mostrato addolorato per le vittime del grave attentato terroristico dei giorni immediatamente precedenti costato la vita a decine di persone della cui morte è stato accusato l'esercito locale che avrebbe ucciso per errore decine di pescatori nel tentativo di colpire jihadisti di Boko Haram. Dal 2009, quando questo gruppo armato somalo ha iniziato la campagna di violenza nel nord-est della Nigeria, l’insurrezione si è rapidamente estesa ai Paesi confinanti, tra cui Niger, Camerun e Ciad, appunto, con una minaccia tutt'altro che sopita. Per cercare di bloccare queste ripetute sferrate, le nazioni vicine al Ciad "hanno chiesto aiuti all’esercito locale, molto esperto, che ha subìto delle perdite anche se perdite più alte le ha avute Boko Haram", spiega padre Piazza. Il religioso dice di aver conosciuto diverse persone che hanno perso familiari negli scontri. "Di sicuro Boko Haram non sarà sconfitto perché è troppo radicato in tante zone", ammette e riferisce gli umori - a parer suo falsi - di certi comparti della popolazione convinti che non si tratti in realtà di Boko Haram ma di movimenti ribelli. Di certo, i gruppi jihadisti hanno riorganizzato e rilanciato le loro operazioni sfruttando proprio l’instabilità politica interna del Ciad dove la transizione presidenziale del 2021 continua ad essere segnata da contestazioni e disordini.
La dolorosa accoglienza dei profughi sudanesi
Dal confine con il Camerun, dove è situata la capitale, ad Abéché, verso nord-est, sono circa 700 chilometri. Qui da tre anni risiede fratel Enrico Gonzales, anch'egli comboniano. Insieme a un confratello e a un sacerdote diocesano, anima la parrocchia di Santa Teresa del Bambin Gesù che copre il territorio di frontiera con il Sudan. È un'area delicatissima e in perenne sofferenza questa, porta di ingresso dei profughi dal Sudan. Campi profughi ospitano fino a cinquantamila persone, con il deserto che incombe. "L’acqua è un gravissimo problema. Sono intervenute quasi tutte le agenzie umanitarie mondiali per cercare di allievare la situazione ma è veramente molto molto difficile. Si cerca di fare quello che si può", confida il missionario. La parrocchia insiste nel vicariato di Mongo, cittadina a 400 chilometri da Abéché: "qui la Caritas diocesana sta intervenendo in alcuni campi per costruire rifugi, pozzi ma è complicato. Non tanto la questione della sicurezza crea problema, perché qui la situazione è relativamente tranquilla, ma dal punto di vista logistico ci sono criticità. Per esempio qui c’è l’aeroporto ma, essendo militare, è a uso esclusivo delle forze ciadiane. Il trasporto con i convogli prende troppo tempo soprattutto durante la stagione delle piogge. Alcuni profughi sono stati trasferiti in città, qui, in attesa di riconoscimento. Il flusso è continuo. Io ero in Sudan vent’anni fa e ora mi sono ritrovato con i figli e i nipoti dei profughi della guerra del Darfur", racconta.
"Sono arrivato dieci anni fa in Ciad e mi sono ritrovato ancora gli sfollati sudanesi che ormai si sono stabiliti qui. Io credo che rimarranno qua sicuramente perché, nonostante tutto, ancora è sicuro", prosegue Gonzales, compiaciuto del fatto che almeno il governo non ha chiuso la frontiera, altrimenti i sudanesi sarebbero intrappolati in un destino di morte certa per il conflitto civile che dà tregue. Fratel Enrico usa l'arma dell'ironia per esorcizzare la fatica e la rabbia che prova di fronte a una guerra civile, quella del vicino Sudan - verso cui pure il Papa di continuo rivolge il suo pensiero - che definisce "spaventosa" e in cui ne ha fatto le spese lo stesso Comboni College, saccheggiato e messo a fuoco. Con i rifugiati sudanesi Gonzales ha avuto a che fare anche quando tempo addietro viveva in Egitto ma mai si è abituato alle carneficine e ai patimenti dei campi, ormai dimenticati dalla comunità internazionale. "C’è bisogno di una svegliatina", avverte. "Le grandi organizzazioni cercano di fare del loro meglio ma qui il problema è sempre il solito: eternizzare l’aiuto più che risolvere alla radice il problema che sarebbe di innescare processi di pace, riconciliazione e giustizia. Ma è estremamente complesso".
Per una pastorale sinodale che superi il clericalismo
La zona di Abéché è abitata da una piccolissima minoranza di cristiani dove "i rapporti con i musulmani sono formalmente buoni", riferisce ancora fratel Enrico. Di collaborazione interna nella vita della Chiesa torna a parlare padre Piazza dalla capitale, impegnato nella pastorale carceraria e nelle periferie "dove non c’è niente, ma c’è la gente, gente di buona volontà che si è organizzata per trovare un luogo dove pregare la domenica". Racconta di come si danno da fare nell'animazione cercando di curare la formazione in questa zona che progressivamente si trasformerà in vicariato e poi in parrocchia. "Attualmente c’è solo una tettoia che ripara chi prega. Alla festa di Comboni c’erano 1500 persone. Un cambiamento bello che ho visto - racconta il missionario - è che ora trovi nelle comunità delle persone diventate anziane, cristiani cresciuti nella fedeltà alla Chiesa e che garantiscono dei servizi dandone continuità. Qui la sinodalità e ministerialità è già messa in pratica con lavori di équipes prevalentemente in mano ai laici senza i quali il prete non potrebbe davvero fare niente". Il suo pensiero finale è a Papa Francesco, "un dono che lo Spirito Santo ha fatto alla Chiesa di oggi, dono anche per la Chiesa del Ciad. Il mio desiderio - sottolinea infine - è che venga ascoltato di più in questa Chiesa che ha tendenza a ripiegarsi nel clericalismo. Bisognerà aver pazienza che essa cresca nei due polmoni, nella preghiera ma anche nella dimensione della promozione umana". La chiosa su un aneddoto che vale anni e anni di missione, la più grande ricompensa: "una volta la moglie di un catechista mi ha detto 'Tu sei mio fratello'".
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