La storia di padre Rody Noura: dalla fuga da bambino dal Libano alla riconciliazione
Debora Donnini – Città del Vaticano
Minacce, terrore, fuga dal proprio Paese. Si possono vivere queste esperienze e vederle, a un certo punto della propria vita, non come ingiustizie ma “con altri occhi”? L’esperienza di Rody Noura, libanese, cattolico maronita, testimonia che questo è possibile.
La fuga
Siamo in Libano. È il maggio del 2000 e Rody, tredicenne, sta studiando a casa per gli esami, quando un giorno suo padre telefona e dice a tutta la famiglia: “Dobbiamo fuggire, immediatamente”. Non c’è tempo per fare le valigie, giusto in fretta e furia prendere il minimo indispensabile, salire in macchina e scappare verso il confine. “Siamo entrati in Israele quel giorno tutti insieme, intorno a 8-9 mila persone. Eravamo tutti affollati al confine, era un confine chiuso, non era una cosa organizzata, c’era il caos”, ricorda Rody ai media vaticani.
Suo padre era un militare e c’erano state da parte di Hezbollah forti minacce anche verso le famiglie. Questo portò alla decisione, da parte di molti, di lasciare il Paese natale per rifugiarsi in Israele. “Adesso - racconta - lo vedo come un ‘esodo’ perché il primo pensiero che ti viene in mente da bambino è: finalmente è finita la guerra! Avevamo sperimentato per anni la paura della morte, nostra e dei nostri padri, che erano militari. ‘È finita la guerra, mio padre è salvo’, pensavo”. Israele non era preparato all’arrivo di migliaia di persone che sono state accolte in centri di rifugio, anche due o tre famiglie in una stanza, e poi in kibbutz o hotel finché pian piano c’è stato l’inserimento nella società israeliana, i bambini hanno iniziato a andare a scuola, a imparare la lingua. La famiglia di Rody si inserì in Galilea.
Perché è successo tutto questo?
L’adolescenza - come sempre avviene in questa fase di crescita veloce e allo stesso tempo decisiva - non è stata facile. Ai normali interrogativi che contraddistinguono questa età, si aggiungeva il pensiero per coloro che avevano perso e per familiari e amici rimasti in Libano. “Avevo dentro di me sempre una domanda: ‘Perché è accaduto questo? Perché è successo questo a noi, a me? Le risposte che ricevevo erano ‘di colpa’: la colpa è di Hezbollah che ci ha minacciato o del Libano, o colpa nostra che dovevamo rimanere…Ma quello che mi serviva non era sapere chi fosse il colpevole ma perché fosse accaduto tutto ciò, quale ne fosse il senso”, ricorda. Davanti a dolore e interrogativi, la famiglia di Rody, che era cristiana, si rifugiava nella preghiera ma lui non poteva scacciare dalla sua testa quella domanda. “Chi poteva darmi una risposta era Dio. Per 4-5 anni tutte le notti pregavo Dio, gli chiedevo ‘perché’ e piangevo, il mio cuscino era sempre bagnato di lacrime”, racconta.
“Tutto quello che era accaduto nella mia vita - prosegue - non mi aveva reso felice: guerra, paure, la fuga, le difficoltà dopo essere fuggiti… Non era facile. Volevo essere felice ma avevo bisogno di questa risposta. Allora pensavo che felici fossero i potenti, i ricchi. Avevo il sogno di essere un giocatore di basket, allora mi allenavo, uscivo con gli amici, andavo alle feste e soprattutto pensavo che per essere felice non dovevo ascoltare quello che volevano i miei genitori perché io ero in questa situazione perché i miei genitori avevano fatto delle scelte che avevano reso la mia vita infelice”. Rody racconta di aver cercato questa felicità in tanti aspetti della vita, anche sbagliati, di aver toccato l’abisso. “Era come cercare di bere acqua in un pozzo vuoto e, non trovando la felicità, questo mi ha svotato, mi sono posto domande sul senso della vita”, spiega.
Un incontro
Un giorno Rody aveva un problema al ginocchio e si trovava solo in casa quando arrivò il parroco che gli chiese di accompagnarlo per qualche giorno in una missione. “Pur non avendo voglia - rammenta - successivamente l’ho chiamato e gli ho detto che andava bene per me trascorrere qualche giorno in parrocchia e in missione. Lì ho provato l’esperienza di felicità che cercavo. Ho pensato: voglio essere felice nella Chiesa perché solo lì ho sentito che potevo essere felice e in pace. Volevo allora rifugiarmi in un monastero ma non si poteva, perché era in Libano, e in quel frangente mi è arrivato l’invito da parte del vescovo: ha saputo della mia vocazione e mi ha invitato a conoscere il seminario Redemptoris Mater in Galilea, anche per vedere cosa fare con la mia vocazione”. Rody, quindi, ha ascoltato le catechesi del Cammino Neocatecumenale e sottolinea l’importanza della formazione non solo in Seminario ma anche in una comunità cristiana.
Di quelle catechesi ricorda che ad averlo colpito furono alcune domande: “le domande su Abramo, la sua chiamata ad uscire dalla propria terra, la catechesi sull’Esodo". "Nella mia vita - sottolinea - l’esodo sperimentato era una storia oscura, maledetta, da dimenticare, mentre con queste catechesi ho cominciato ad avere uno sguardo di fede verso la mia storia. Tutti questi eventi erano stati sì difficili, ma in fondo avevano un senso: mi hanno portato a incontrare il Salvatore, la chiave della mia felicità”.
La formazione nel Seminario
La sua formazione sacerdotale avviene, dunque, nel seminario Redemtporis Mater inter rituale di Galilea. Era una vita molto intensa di preghiera e studio. "Nei primi due anni - racconta - ho ricevuto un aiuto molto forte, però a un certo punto ho cominciato a pensare alla mia vita, non avevo la libertà di prima, mi sono venuti dei dubbi …”. Decisiva è stata l’esperienza di una notte. “In Seminario trascorriamo momenti di adorazione davanti al Santissimo Sacramento e una volta mi è capitato un turno di adorazione dalle 2 alle 3 della notte. Ho pregato per obbedienza. Poi sono tornato nella mia stanza, era buio, ho acceso la luce ed è come se si fosse accesa la luce nuovamente nella mia vita, come essere toccato dalla Grazia, e ho sentito che Dio c’è, non si può negare, e mi sono messo a pregare intimamente con il Signore dalle 3 alle 5 della mattina. Un’esperienza unica, ho sentito che si poteva essere felici anche non avendo niente, senza soldi, si poteva essere felici vedendo la propria storia illuminata”, dice. E oggi padre Noura, che ha 37 anni, è parroco in due parrocchie in Galilea dove con gioia porta avanti la sua missione e il suo servizio ai fedeli cattolici maroniti.
La chiave per la pace
Partendo dall’esperienza dell’amore e del perdono di Dio, questo ha riconciliato Rody Noura con la sua vita, è andato anche chiedere perdono a suo padre perché aveva pensato che lui fosse la causa della sua infelicità. “La fede, essere attaccato a Cristo, il Principe della pace, mi ha permesso di benedire la mia storia e di benedire, invece che maledire, coloro che nel passato vedevo come nemici e causa della mia infelicità”, ricorda. La storia del sacerdote contiene, dunque, in sé anche un messaggio di pace. “In merito a quello che stiamo vivendo in questo tempo in Medio Oriente, ma anche alle guerre che ci sono in diverse parti del mondo, la mia esperienza è che si può vivere in pace con l’altro, si può amarlo, perdonarlo e chiedere perdono perché accusando l’altro non si arriva a niente, solo a uccidere, alle guerre”, spiega ricordando che c’è un passo decisivo che porta il resto: si può vivere la pace, ma prima c’è bisogno della riconciliazione con sé stessi e con la storia per sperimentare che Dio ci ama.
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