Benin, tra i bambini che nascono con un martello in mano
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Un’infanzia fatta di «pietre da frantumare», «scuola da frequentare», «cibo da provvedere». È quella vissuta tra fatica e povertà dai bambini spaccapietre del Benin, la cui condizione si fa «carne viva» nel libro LAZARE — Sogni di un concasseur (Roma, Castelvecchi Editore, 2024, pagine 123, euro 16,50) di don Ennio Stamile, parroco di San Paolo Apostolo a Praia a Mare, e presidente dell’associazione di volontariato “San Benedetto Abate”, da lui fondata nel 2007, che opera in Calabria e in Africa. «Ho conosciuto Lazare due anni fa, quando aveva 13 anni, nel corso di un viaggio che — ricorda il sacerdote in una conversazione con i media vaticani — per l’associazione ci aveva portati anche al monastero dei cistercensi di Kokoubou, dove ho avuto occasione di incontrare père Jean», altra figura chiave del racconto di don Stamile. Lazar vive invece a Paouignan, un villaggio, in cui «si nasce col martello in mano», osserva l’autore. «Lì l’unica forma di sostentamento è data dal granito, per cui i bambini sono costretti, per motivi di povertà, a spaccare pietre dai due anni d’età in su». Una realtà diffusa in particolare nella zona collinare di Dassa, nella parte meridionale del Paese africano, dove il sostentamento degli abitanti di interi villaggi viene proprio dal lavoro di questi bambini, accanto a quello degli adulti: quotidianamente riducono le pietre in tanti piccoli frammenti, che vengono poi venduti all’industria edilizia per la produzione di cemento armato, in una nazione che nella lista degli Stati per indice di sviluppo umano l’Onu ha posto nel 2024 al 173° posto su 193.
Bambini abituati al dolore
«Lavorano un paio d’ore al mattino presto, dalle 5:00 alle 7:00, poi — spiega — si preparano per la scuola e il pomeriggio tornano a lavorare dalle 15:00 alle 18:30, più o meno. Gli adulti spaccano le pietre più grandi, i bambini quelle più piccole. Un quintale di pietrisco ha un valore equivalente a circa 1,50€. Per produrlo ci vuole circa una giornata di lavoro di tre-quattro persone, bambini compresi, e il guadagno va alla famiglia». Per il villaggio di Paouignan, aggiunge don Stamile, «è un sostentamento»: i bambini «non hanno contezza di essere schiavi di questo lavoro, perché vengono “educati” da piccolissimi a farlo, come pure vengono “abituati” al dolore che può venire da una martellata su una mano o una gamba: il dolore viene considerato addirittura una sorta di “forma di educazione” al lavoro».
L'importanza della scuola
È in tale contesto dunque che «la scuola ha un compito molto importante, anche e soprattutto a queste latitudini». Lo ha capito bene père Jean, che ha personalmente seguito i lavori di costruzione di una scuola nella zona di Kokoubou, a circa 300 km da Paouignan, verso il centro-nord del Benin, in un’area conosciuta per la produzione di burro di karité, trattato dalla “San Benedetto Abate” per la commercializzazione solidale di prodotti di cosmesi, un’altra delle tante attività svolte dall’associazione di volontariato per sostenere i progetti umanitari: «Operiamo in Benin e ora anche in Tanzania, nel campo della cultura e della solidarietà. Ci occupiamo di formazione, prevalentemente con le scuole — ne stiamo avviando una ad Aguégué, uno dei villaggi palustri, sulle palafitte, nel sud del Benin, nati nella prima metà del Settecento per sfuggire alla tratta degli schiavi — e di sanità, con un centro di dialisi nell’ospedale diocesano di San Marco Argentano-Scalea, in collaborazione con la diocesi locale e quella di Porto-Novo in Benin. Seguiamo inoltre un orfanotrofio nel villaggio di Sakété, sempre in Benin, gestito dalle suore agostiniane».
La bellezza della Chiesa africana
Quando ha conosciuto père Jean, don Stamile racconta di essere rimasto colpito soprattutto dalla «leggerezza con cui il monaco cistercense si presenta, parla, cammina, sempre a piedi scalzi: sembra che sulla terra rossa africana lui riesca quasi a volare. La sua è una forma di leggerezza che è data invece da una profonda maturità spirituale, raggiunta in decenni di preghiera e di vicinanza al popolo africano», nel capire che è essenziale «dare la possibilità» ai ragazzi di frequentare la scuola, laddove l’analfabetismo «raggiunge circa il 50% dei bambini». «Lazar, come un po’ tutti i suoi coetanei, ha bisogno di maestri, di insegnanti, ma poi per loro sono importanti anche le comunità parrocchiali, perché in Africa c’è davvero una presenza cristiana che sprigiona la bellezza e la freschezza di una Chiesa giovane, una Chiesa viva, presso la quale — assicura l’autore del libro — si riscopre un senso di gioia, fraternità e condivisione che solo in Africa si sperimenta».
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