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Nel tempo di Avvento la liturgia ci fa ascoltare numerosi testi profetici, che mirano a farci ritrovare stupore nei confronti del mistero dell’Incarnazione: la venuta e il ritorno del Signore Gesù nel mondo e nella storia. Sono letture piene di incanto e di coraggiosa speranza dove i profeti, uomini scelti e chiamati da Dio per dare voce alla sua parola, provano a rianimare il popolo accendendo visioni e prospettive inedite. Un inno della liturgia lo dice in modo convincente.
Le voci dei profeti annunziano il Signore,
che reca a tutti gli uomini il dono della pace.
Ecco una luce nuova s’accende nel mattino,
una voce risuona: viene il re della gloria.
Nel suo primo avvento, Cristo venne a salvarci,
a guarir le ferite del corpo e dello spirito.
Alla fine dei tempi, tornerà come giudice;
darà il regno promesso ai suoi servi fedeli.
Ma chi sono i profeti? Nella storia di salvezza i profeti appaiono come figure decisive perché «essi solo sanno fornire la chiave di lettura per la comprensione del senso degli eventi umani, nei loro risvolti positivi e soprattutto in quelli tragici»[1]. I profeti sono uomini chiamati da Dio a osservare e ad annunciare in quale direzione la storia si muove secondo il disegno di Dio e la sua volontà. Lo strumento con cui i profeti svolgono il loro ministero è la parola. Questa parola da un lato è forte, perché riferisce lo sguardo e il giudizio di Dio sulla realtà. Dall’altro lato, tuttavia, la loro parola è uno strumento estremamente debole, che non può imporre ma solo proporre il pensiero di Dio.
Nulla è più debole della parola; presenta tre lati di debolezza. È vento che vibra, limitato dalla distanza, confinato nelle frontiere delle lingue, di durata istantanea e sottomesso a perturbazioni senza numero. È debole l’uomo che la pronuncia, quando non dispone di ricchezze che la raccomandino o di eserciti che la spalleggino o di tribunali che la sanzionino. Debole perché soprattutto si rivolge a cuori umani, torpidi o fiacchi, ostinati o codardi. È debole perché chi deve pronunciarla può fuggire (come Giona) o tacere (come Geremia); perché chi deve udirla può chiudere le orecchie o indurire il cuore; perché con l’essere pronunciata cessa di esistere
[2].
I messaggi dei profeti – siano essi ammonizioni, oracoli o visioni – non possono essere ascoltati con superficialità o distrazione. La loro forza è tale da escludere ogni possibilità di indifferenza: chi li accoglie si trova di fronte a un bivio, tra l’apertura e l’accoglienza o la chiusura e il rifiuto. Questo valeva per Israele nell’antichità e continua a valere oggi per la Chiesa. Ma perché accade tutto questo? Perché ogni oracolo profetico mira a favorire un incontro e un dialogo tra due libertà: quella di Dio, sempre fedele alla sua alleanza, e quella dell’uomo, spesso incerta e titubante nel rispondere alla chiamata. Ma cosa accade all’uomo quando si mette in ascolto di una parola profetica? Il versetto di un salmo lo illustra in modo efficace.
«Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal 62,12)
Questa massima sapienziale descrive come la voce dei profeti tocchi la nostra sensibilità. Quando essi parlano, è come se percepissimo contemporaneamente due voci: una che ci consola e ci solleva, e un’altra che ci inquieta e ci rimprovera. Proprio questa ambivalenza emerge nell’esperienza di Geremia, che, al momento della chiamata a diventare profeta in Israele, riesce a superare le sue iniziali resistenze.
Il Signore stese la mano
e mi toccò la bocca,
e il Signore mi disse:
«Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca.
Vedi, oggi ti do autorità
sopra le nazioni e sopra i regni
per sradicare e demolire,
per distruggere e abbattere,
per edificare e piantare» (Geremia 1,9-10).
Geremia si sente intimorito dal compito di parlare al popolo, consapevole che le sue parole dovranno produrre un doppio effetto: demolire per poi poter anche edificare. È proprio questo il paradosso di ogni voce profetica, evidente in tutte le grandi pagine della Scrittura, dai profeti maggiori fino ai minori. Quando il profeta parla in nome di Dio, le sue parole contengono sempre una parte di accusa, un richiamo deciso alla responsabilità e alla giustizia. Tuttavia, questo tono di ammonimento e di minaccia si trasforma, spesso in modo inatteso, in un’apertura di speranza: Dio riafferma la fedeltà del suo amore e offre al popolo una nuova opportunità di aderire al dono dell’alleanza.
La difficoltà che incontriamo nell’ascoltare la parola profetica nasce dalla sua densità comunicativa, che mira a riattivare il dinamismo della nostra conversione a Dio. Il nostro cuore, infatti, tende a spaventarsi e a chiudersi di fronte a stimoli troppo intensi. Sarebbe ingenuo pensare che questa chiusura dipenda unicamente dai toni severi con cui i profeti scuotono la nostra coscienza. In realtà, ci scopriamo sordi e refrattari all’ascolto anche – e soprattutto – quando la voce di Dio cerca di riaprire i canali della speranza. Accogliere buone notizie non è affatto immediato, soprattutto quando la realtà è stata a lungo segnata da sofferenze, delusioni e incertezze. La tentazione di credere che nulla di nuovo possa accadere si insinua spesso nei nostri cuori, alimentando un sottile cinismo.
Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità: tutto è vanità.
Quale guadagno viene all’uomo
per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?
Una generazione se ne va e un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa.
Quel che è stato sarà
e quel che si è fatto si rifarà;
non c’è niente di nuovo sotto il sole (Qoelet 1,2-4.9).
Eppure la voce dei profeti ci raggiunge proprio qui, dove siamo tentati di credere che la realtà non ci possa più offrire nuovi spiragli di luce, che le promesse a cui abbiamo provato a credere non riusciranno mai a compiersi, che le cose migliori della vita siano solo dei ricordi chiusi dentro la scatola della memoria.
«Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, io faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? (Isaia 43,18-19).
Questa è la sfida che il tempo di Avvento ci invita ad affrontare: accorgersi della presenza e dell’azione di Dio dentro la storia e ridestare lo stupore di fronte a ciò che egli non solo può, ma soprattutto desidera compiere ancora nella nostra vita e nella storia del mondo. Durante gli oltre trent’anni della sua vita “nascosta” a Nazaret, Gesù ha assimilato così profondamente questa speranza che, al momento di annunciare per la prima volta il Vangelo al mondo, ha scelto di cominciare proprio con queste parole: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete nel Vangelo» (Marco 1,15).
[1] P. Bovati, Parole di libertà, EDB, Bologna 160.
[2] L. Alonso Schökel – J.L. Sicre Diaz, I profeti. Traduzione e commento, Borla, Roma 1989, 17-18.
Il coraggio di dissentire
Per prepararci ad ascoltare le voci profetiche che, in ogni Avvento, ci guidano verso la celebrazione del Natale e quest’anno anche verso l’inizio dell’anno santo del Giubileo, possiamo rivolgere lo sguardo a due figure femminili: Elisabetta e la Vergine Maria. Nella loro esperienza umana e spirituale si condensano i due atteggiamenti fondamentali per permettere alla parola profetica di generare in noi un autentico dinamismo di salvezza.
Seguendo la cronologia degli eventi accuratamente ordinata dall’evangelista Luca, l’ingresso in scena di Elisabetta è preparato dall’annuncio della nascita di Giovanni Battista rivolto a suo marito, Zaccaria, mentre sta svolgendo le funzioni sacerdotali nel tempio di Gerusalemme. Il Vangelo racconta che i due coniugi, pur essendo giusti e irreprensibili davanti a Dio, «non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni» (Luca 1,7). Sebbene la sterilità venga ascritta soltanto alla donna – secondo un costume tipico delle culture antiche – possiamo notare subito una certa aridità spirituale anche in Zaccaria. Durante un momento di officiatura nel tempio, lo troviamo incapace di accogliere con fiducia l’annuncio di un evento lungamente desiderato, ma forse non ritenuto più possibile.
Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto» (Luca 1,11-17).
L’annuncio dell’angelo contiene una notizia straordinaria: potrà nascere un figlio, destinato a diventare grande agli occhi di Dio e ricolmo della potenza del suo Spirito. Con la sua testimonianza di vita e la sua parola, egli guiderà i figli d’Israele a ritrovare la strada verso il Signore. Dalle parole dell’angelo comprendiamo che questa improbabile nascita è la risposta a una preghiera che Zaccaria ha rivolto al Signore probabilmente per lungo tempo, durante la sua vita matrimoniale. Eppure, proprio quando Dio annuncia che questo dono sta per realizzarsi, Zaccaria fatica a lasciarsi andare alla gioia e alla fiducia.
Zaccaria disse all’angelo: «Come potrò mai conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni». L’angelo gli rispose: «Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio. Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo» (Luca 1,18-20).
La domanda dell’anziano sacerdote potrebbe apparire del tutto legittima, quasi inevitabile. Il dubbio è comprensibile: come possono due coniugi ormai anziani far nascere un figlio? Tuttavia, la risposta dell’arcangelo Gabriele è chiara e immediata: nel voler “conoscere”, cioè “capire”, questa proposta apparentemente impossibile da parte di Dio, Zaccaria ha rivelato che il suo cuore è perplesso e non riesce a credere. Per questa mancanza di fede, resterà muto e non potrà parlare fino a un giorno stabilito, che non coinciderà con la nascita di Giovanni, ma con il momento della sua circoncisione, secondo le prescrizioni della Legge.
Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria (Luca 1,59).
Sebbene Zaccaria sappia che il nome del bambino non sarà il suo, ma «Giovanni», vicini e parenti accorsi per la cerimonia insistono nel seguire la tradizione, suggerendo di chiamarlo come suo padre. La patronimia, una pratica diffusa in molte culture antiche, aveva lo scopo di rafforzare l’identità familiare, creando un senso di appartenenza e continuità nel tempo. Al contempo, questa consuetudine rifletteva una visione della storia fondata sulla continuità generazionale, in cui il presente era interpretato principalmente in relazione al passato, più che al futuro. Ma questo non è l’unico modo di guardare alla realtà. Per riconoscere che il destino di ogni vita è un mistero custodito da Dio, occorre una prospettiva diversa, affidata dal Vangelo alla voce improvvisa di una donna.
Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni» (Luca 1,60).
La diversità di significato tra i due nomi non era poi così rilevante: Zaccaria significa «Dio ricorda», mentre Giovanni vuol dire «Dio usa misericordia». Entrambi i nomi evocano la presenza di Dio nella storia umana, seppur con accenti diversi. Il nome Zaccaria guarda al passato, richiamando la salvezza che Dio ha costruito nel tempo: i suoi interventi, i suoi prodigi, la sua fedeltà. Esprime l’idea che il passato debba necessariamente definire e orientare il presente. Giovanni, invece, sposta l’attenzione sull’oggi, sottolineando ciò che il Signore intende compiere nel presente in vista di un futuro carico di speranza. In questo senso, il nome Giovanni diventa una profezia di rinnovamento: suggerisce che la storia, pur influenzata dai suoi retaggi, è sempre capace di superarsi e aprirsi a nuove possibilità.
Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio (Luca 1,61-64).
La reazione di Elisabetta sorprende i presenti, perché introduce un criterio insolito, rompendo con la consuetudine e suggerendo che, a volte, è necessario interrompere la continuità per aprirsi alla novità di Dio. La gentile “protesta” di Elisabetta non è sufficiente a modificare l’opinione comune: si attende una conferma e un cenno da parte del pater familias, Zaccaria. L’anziano sacerdote ha una seconda occasione di credere all’annuncio di Dio, e questa volta non ha esitazioni: questo bimbo sarà chiamato con un nome nuovo, che la bocca del Signore ha pronunciato (cf. Is 62,2). Si accende una grande meraviglia tra tutti gli invitati e la lingua di Zaccaria si scioglie e si riapre alla lode.
Elisabetta e Zaccaria, non senza sofferenza e un lungo cammino personale, hanno compreso che Dio non solo era fedele alla loro storia, ma stava preparando in essa la sorpresa di una grande novità. Il cambio di nome ha rivelato loro un significato profondo: mentre il primo rifletteva semplicemente l’abitudine di legare la vita del figlio a quella del padre, il secondo racchiudeva l’eccedenza di una rivelazione, la grazia di una promessa del Signore a cui era stato difficile credere. Laddove noi pensiamo che l’esistenza sia drasticamente segnata dalle sue condizioni iniziali (genitoriali), il Vangelo annuncia che tra le premesse e lo sviluppo di una vita umana c’è anche – soprattutto – discontinuità, una certa presenza di Dio che strappa il nome di una persona da ogni destino già scritto e da qualsiasi fatalismo. La misericordia del Signore non è un attributo statico della sua bontà, ma un dinamismo di compassione che opera continuamente nelle pieghe della storia, soccorrendo le mancanze della fragilità umana e i limiti che ogni generazione porta con sé.
Oggi più che mai, abbiamo bisogno di recuperare questo tipo di sguardo spirituale sulla realtà. Viviamo un tempo straordinario nella storia umana, in cui, accanto a gravi ingiustizie, guerre e violenze che affliggono ogni angolo del mondo, emergono nuove scoperte, progressi promettenti e percorsi di liberazione che avanzano giorno dopo giorno. Eppure, in questo scenario di nuove e antiche possibilità, siamo talvolta troppo concentrati sul presente: fatichiamo a investire sul futuro, siamo avvolti dalle preoccupazioni, ci prendiamo troppo sul serio e non riusciamo a portare con leggerezza il peso della vita. Siamo così concentrati sul “qui e ora”, imprigionati in un materialismo opprimente da non riuscire più a cogliere nella realtà il sogno di Dio e il soffio gentile e forte del suo Spirito. Ecco perché tendiamo a immaginare il domani come la fotocopia dell’oggi, a ripetere gesti e routine quotidiane senza più grandi speranze nel futuro. In questo clima diffuso, la tentazione del mondo diventa quella di confidare unicamente nelle proprie forze, mentre quella della Chiesa potrebbe essere di chiudersi nella nostalgia di se stessa.
Il «no» di Elisabetta, che rimette il destino di Giovanni nelle mani di Dio ci ricorda che niente e nessuno è condizionato soltanto dalla propria storia e dalle proprie radici, ma anche ricondizionato dalla grazia di Dio. Ogni vicenda umana, con le sue luci e ombre, non è mai fissata in un libro già scritto, con un numero di pagine inevitabilmente prestabilito. Aprendoci all’ascolto della Parola di Dio e imparando a riconoscere la sua opera e la sua provvidenza, possiamo scoprire che il meglio deve ancora venire, che i giorni più belli sono ancora davanti a noi e che l’avventura della vita è appena iniziata.
L'umiltà di aderire
Se in Elisabetta abbiamo visto come sia necessario saper dire «no» all’apparente continuità delle cose e dei legami, in Maria di Nazaret possiamo scorgere la necessità di saper dire «sì» alla novità di Dio, formulando un assenso libero e gioioso alla sua volontà. Il Vangelo dell’Annunciazione lo conosciamo molto bene, perché la liturgia ce lo propone in diverse occasioni dell’anno liturgico. In questa occasione, lo vogliamo ripercorrere unicamente in quei tratti che ci possono aiutare a recuperare un po’ di stupore nei confronti del mistero dell’Incarnazione.
Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria (Luca 1,26-27).
Maria viene descritta come una vergine. Con questo aggettivo non si definisce solo la sua condizione biologica, ma anche la sua attitudine interiore. Non dimentichiamo che, da sempre, la Chiesa considera Maria Vergine (ante, in e postpartum) e Madre, legando così la condizione della sua illibatezza a quella della sua divina maternità. In questa prospettiva, la verginità va intesa come la capacità di essere così accoglienti e aperti alla vita da poter diventare anche straordinariamente fecondi. Di fronte a quel seme particolare che è la Parola di Dio, la verginità di Maria ci mostra quanto sia importante custodire un cuore aperto e fiducioso, per poter accogliere la volontà di Dio e portare il suo gustoso frutto.
Per descrivere il misterioso incontro avvenuto nell’Annunciazione, l’evangelista descrive l’avvicinamento dell’angelo a Maria come un «entrare verso di lei». Luca utilizza un verbo (eiserchomai) che in greco significa «muoversi, entrare dentro uno spazio o all’interno di una condizione». Il compito dell’angelo, dunque, non sembra essere soltanto quello di recarsi dentro un luogo fisico, ma di fare ingresso nel cuore di Maria, senza forzare in alcun modo le porte della sua disponibilità. La Parola non ha bisogno d’altro: varcare le porte della nostra disponibilità e raggiungerci in quel luogo dove il dialogo con Dio si può sviluppare in una reciproca libertà. Questa tappa della vita interiore è forse una delle più delicate della nostra intera vita cristiana. L’ingresso in noi del Verbo di Dio è un evento meraviglioso ma anche traumatico, paragonabile al momento in cui un ago o una lama fende la nostra pelle, suscitando turbamento e dolore. Lo immagina proprio così l’autore della lettera agli Ebrei, quando tenta di descrivere l’effetto che la parola di Dio produce entrando nelle profondità del nostro cuore.
La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto (Ebrei 4,12-13).
La parola di Dio agisce in noi al pari di una spada, tagliente, penetrante, capace di raggiungerci nell’anima, nel centro di noi stessi, là dove tutte le articolazioni della nostra vita stanno insieme in un fragile equilibrio. Questo luogo così intimo e, spesso, così estraneo anche alla nostra coscienza è proprio il nostro cuore, dove la nostra identità agli occhi di Dio appare nuda e perfettamente riconoscibile. Dentro di noi c’è una resistenza a lasciarci incontrare proprio qui, perché intuiamo che l’equilibrio esistenziale in cui ci siamo assestati potrebbe essere messo in discussione. Avendo ereditato da Adamo l’istinto del nascondimento, siamo costantemente tentati di impedire a Dio di posare il suo sguardo su quello che siamo realmente. Temiamo questo incontro perché sappiamo che lo sguardo di Dio potrebbe far crollare all’improvviso ogni certezza e farci perdere il controllo della nostra vita. Allo stesso tempo, questo incontro lo desideriamo fortemente, perché sappiamo bene che solo dentro lo sguardo di Dio sapremo finalmente riconoscerci in una luce nuova, quella di un amore grande, capace di rinnovare tutte le cose. Maria accoglie la parola del Signore e consente alla sua voce di annunciarle novità sorprendenti.
«Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo (Luca 1,28).
L’angelo rivolge a Maria un imperativo tanto bello quanto paradossale. Se la gioia è la condizione che tutti desideriamo vivere il più a lungo possibile, è pur vero che si tratta di un sentimento difficile da improvvisare quando ne siamo sprovvisti. Viceversa, se il nostro cuore è colmo di allegria non possiamo non manifestarlo all’esterno. Perché, dunque, alla Vergine viene comandato di sorridere? La risposta non tarda ad arrivare. L’angelo riconosce Maria come una creatura bella, amata e riempita di grazia. E la invita a rendersene conto. È la stessa “sensazione” che vive Gesù nel momento del battesimo, quando avverte la voce dal cielo dire: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Marco 1,11). Così come Gesù si sente amato, scelto, custodito dallo sguardo del Padre, allo stesso modo Maria è invitata dall’angelo a percepirsi come una cosa graziosa e gradita agli occhi di Dio. La voce angelica culmina nella meravigliosa promessa – tutta da credere – che tra la giovane donna di Nazaret e l’Onnipotente non ci sia alcuna distanza: «il Signore è con te».
Di fronte a questa notizia, Maria entra in un forte turbamento. L’evangelista la descrive sconvolta, come una barca che viene scossa e agitata da un improvviso maremoto. Perché? Per almeno due motivi. Il primo è che quando qualcuno ci manifesta il suo amore è sempre una sorpresa. L’amore non è un evento scontato, ma un’istanza nuova ogni volta che accade. La certezza di essere amati non si acquisisce mai una volta per tutte. Ogni giorno – forse addirittura ogni istante – abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti e accolti per quello che siamo. È un pane fresco che il nostro cuore ha bisogno di masticare sempre. Il secondo motivo per cui Maria prova timore di fronte alla voce angelica è perché il suo cuore intuisce che è arrivato il momento di lasciarsi ridefinire pienamente dalla voce di Dio. Quando siamo raggiunti da un invito grande, che ci riempie di dignità, entriamo in un sano turbamento perché la nostra libertà ha bisogno di verificare e, eventualmente, validare quanto si sta affermando di noi e della nostra vita. Facciamo tutti una fatica enorme a lasciarci alle spalle i giudizi e gli sguardi che ci hanno definito. Ci siamo così abituati a una piccola, talvolta pessima, idea di noi stessi che non riusciamo ad aprirci a una percezione rinnovata e migliore della nostra identità. Non siamo abituati a guardarci con gli occhi di Dio, ma con quelli esigenti degli altri oppure con quelli impietosi di noi stessi. È come se la parola di Dio dovesse scrivere su un foglio dove molte altre dichiarazioni si sono già accumulate e organizzate nel tempo, lasciando poco spazio a ulteriori affermazioni. Ecco a cosa ci servono, in Avvento, l’attesa e l’ascolto: a permettere alla voce di Dio di entrare in noi per raccontare nuovamente quello che siamo e possiamo essere dinanzi al suo volto.
L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio» (Luca 1,30).
Maria è invitata ad attraversare la paura che sta provando, perché quanto Dio le vuole proporre è, in realtà, qualcosa di molto compatibile con quella grazia che il suo cuore stava già cercando.
Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine (Luca 1,31-33).
La missione appare davvero enorme: il rischio di non essere capita da nessuno, anzi di venire giudicata da tutti (come adultera) è molto serio e probabile secondo le prescrizioni della Legge di Mosè.
Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, giace con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città e li lapiderete a morte: la fanciulla, perché, essendo in città, non ha gridato, e l’uomo perché ha disonorato la donna del suo prossimo. Così estirperai il male in mezzo a te. Ma se l’uomo trova per i campi la fanciulla fidanzata e facendole violenza giace con lei, allora dovrà morire soltanto l’uomo che è giaciuto con lei, ma non farai nulla alla fanciulla. Nella fanciulla non c’è colpa degna di morte: come quando un uomo assale il suo prossimo e l’uccide, così è in questo caso, perché egli l’ha incontrata per i campi. La giovane fidanzata ha potuto gridare, ma non c’era nessuno per venirle in aiuto (Deuteronomio 22,23-27).
Maria viene raggiunta dall’angelo proprio in città dove, restando nei termini definiti dalla Legge, avrebbe anche potuto gridare e rifiutare la chiamata a una gravidanza “impossibile” secondo i criteri umani[1]. Fuori metafora, ciò significa che ogni annuncio di Dio espone necessariamente alla morte, perché contiene la promessa di una vita piena, interamente donata a Dio e al mondo. La paura che si avverte davanti a questo tipo di responsabilità si supera solo in un modo: considerando la bellezza e la grandezza di quanto ci attende. L’angelo, infatti, non offre alla Vergine alcuna rassicurazione sui rischi a cui la chiamata di Dio la espone. Le annuncia soltanto, con grande franchezza, la possibilità e la gloria di diventare la Madre del Signore. Maria allora si lascia attrarre con estrema naturalezza da questo divino destino, attivando la risorsa più preziosa di cui il nostro cuore dispone: il santo stupore.
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?» (Luca 1,34).
Questa domanda è completamente diversa da quella cha ha reso muto Zaccaria. La Vergine non vuole capire nei dettagli il disegno di Dio, vuole semplicemente diventarne partecipe in modo libero e consapevole. Per questo pone un interrogativo, facendo quella cosa che segnala in modo inequivocabile come ci stiamo appassionando a una proposta che ci viene comunicata.
Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Luca 1,35).
La risposta dell’angelo non è esaustiva, ma molto evocativa. Alla Vergine non viene spiegato in che modo potrà generare la carne del Figlio di Dio. Le viene solo annunciato che lo Spirito Santo sarà il suo fedele custode per tutta la durata del viaggio, come fa una nuvola quando dall’alto adombra ciò che sta sulla terra. La Vergine intuisce di avere non solo il cuore gonfio di un progetto meraviglioso, ma anche le spalle coperte da una forza superiore e fedele, quella di Dio.
Davanti all’impossibile proposta di Dio, Maria non ha più bisogno di chiedere nulla. Il disegno tratteggiato dalla parola angelica è sufficientemente intrigante e inquietante, terribile e meraviglioso. La Vergine ha però voglia di concludere in prima persona questa esperienza di annunciazione, non porgendo a Dio solo un assenso, ma provando a formulare un appassionato consenso a quanto il suo cuore ha intuito e cominciato a credere.
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Luca 1,38).
Maria si lascia anzitutto trovare, riuscendo ad ammettere quello che la nostra umanità, dopo l’allontanamento a causa del peccato, non era più in grado di dire a Dio: «Eccomi», «sono qui», «mi hai trovato», «non fuggo», «sono pronta, resto a completa disposizione». Dopo aver chiesto a Maria di sorridere, ora è il turno di Dio per rallegrarsi. Finalmente dalla storia emerge un’umanità che non ha paura, anzi è felice, di riconoscersi come l’«aiuto» che Dio da sempre ha atteso e cercato per trovare una corrispondenza al suo disegno universale d’amore.
Scoprendosi utile a Dio e alla salvezza del mondo, Maria decide di congedare il messaggero celeste attraverso un verbo in forma ottativa («avvenga per me»), con cui la lingua greca è capace di esprimere una proposizione desiderativa («voglia il cielo che», «magari»). In questo modo Maria dichiara tutto il suo entusiasmo per la chiamata appena ricevuta. Non china il capo con quell’atteggiamento di affettata umiltà, con cui spesso accettiamo le cose fingendo di esserne convinti e contenti. Dice all’angelo: «Quello che tu mi hai proposto di accettare, in realtà, adesso sono io a volerlo e a sceglierlo». Ecco come reagisce un cuore immacolato, colmo di stupore quando ascolta e accoglie la parola di Dio, esclamando: «Ma certo!».
Maria non si lascia né pregare né costringere, ma si appropria felicemente di quello che l’angelo le ha proposto di credere. Così strappa a Dio l’ultimo sorriso, facendogli sapere che non è più soltanto del cielo l’iniziativa di ricucire insieme l’umano e il divino. Anche la terra, ora, desidera il medesimo destino di comunione. Non possono che concludersi in questo modo tutte le annunciazioni che riceviamo nel viaggio della vita. Quando la luce di Dio riesce a mostrarci che dentro la paura per quello che ci attende è presente la fedeltà di una promessa eterna, nasce in noi la meraviglia e ci scopriamo capaci di pronunciare finalmente il nostro «eccomi».
[1] Celebra è l’omelia di san Bernardo dove la libertà di Maria di fronte all’annunciazione di Dio è descritta con accenti sublimi e drammatici: «Hai udito, Vergine, che concepirai e partorirai un figlio; hai udito che questo avverrà non per opera di un uomo, ma per opera dello Spirito santo. L'angelo aspetta la risposta; deve fare ritorno a Dio che l'ha inviato. Aspettiamo, o Signora, una parola di compassione anche noi, noi oppressi miseramente da una sentenza di dannazione. Ecco che ti viene offerto il prezzo della nostra salvezza: se tu acconsenti, saremo subito liberati. Noi tutti fummo creati nel Verbo eterno di Dio, ma ora siamo soggetti alla morte: per la tua breve risposta dobbiamo essere rinnovati e richiamati in vita. Te ne supplica in pianto, Vergine pia, Adamo esule dal paradiso con la sua misera discendenza; te ne supplicano Abramo e David; te ne supplicano insistentemente i santi patriarchi che sono i tuoi antenati, i quali abitano anch'essi nella regione tenebrosa della morte. Tutto il mondo è in attesa, prostrato alle tue ginocchia: dalla tua bocca dipende la consolazione dei miseri, la redenzione dei prigionieri, la liberazione dei condannati, la salvezza di tutti i figli di Adamo, di tutto il genere umano. O Vergine, da' presto la risposta. Rispondi sollecitamente all'angelo, anzi, attraverso l'angelo, al Signore. Rispondi la tua parola e accogli la Parola divina, emetti la parola che passa e ricevi la Parola eterna. Perché tardi? perché temi? Credi all'opera del Signore, da' il tuo assenso ad essa, accoglila. Nella tua umiltà prendi audacia, nella tua verecondia prendi coraggio. In nessun modo devi ora, nella tua semplicità verginale, dimenticare la prudenza; ma in questa sola cosa, o Vergine prudente, non devi temere la presunzione. Perché, se nel silenzio è gradita la modestia, ora è piuttosto necessaria la pietà nella parola. Apri, Vergine beata, il cuore alla fede, le labbra all'assenso, il grembo al Creatore. Ecco che colui al quale è volto il desiderio di tutte le genti batte fuori alla porta. Non sia, che mentre tu sei titubante, egli passi oltre e tu debba, dolente, ricominciare a cercare colui che ami. Levati su, corri, apri! Levati con la fede, corri con la devozione, apri con il tuo assenso (San Bernardo, Omelie sulla Madonna, Om. 4, 8-9; Opera omnia, ed. Cisterc. 4, 1966, 53-54).
Conclusioni
Per incamminarci verso il Natale del Signore e attraversare la porta del Giubileo con una viva speranza, il primo movimento del cuore da risvegliare è lo stupore. Non basta, però, ascoltare le parole buone, vere e promettenti che Dio ci rivolge continuamente. Occorre prima sciogliere le rigidità del cuore, dicendo «no» a tutto ciò che rischia di chiuderci e appesantirci: paura, rassegnazione, cinismo. Solo così possiamo aprirci alla novità di Dio, accogliendo in noi il seme della sua volontà di bene per tutti. Se il cuore si lascia rinnovare dallo stupore, sapremo guardare tutto con occhi nuovi, riconoscendo quei semi di Vangelo già presenti nella realtà, pronti a germogliare per portare nel mondo il frutto di Dio.
Tu hai voluto, o Padre, che all’annuncio dell’angelo la Vergine immacolata concepisse il tuo Verbo eterno, e avvolta dalla luce dello Spirito Santo divenisse tempio della nuova alleanza: fa’ che aderiamo umilmente al tuo volere, come la Vergine si affidò alla tua parola. Per il nostro Signore Gesù Cristo.
p. Roberto Pasolini, OFM Cap. Predicatore della Casa Pontificia
Seconda Predica di Quaresima: Andare altrove (la libertà dello Spirito)
Dall’Aula Paolo VI, Prediche di Quaresima 2025 sul tema « Ancoràti in Cristo-Radicati e fondati nella speranza della Vita nuova » tenute dal Predicatore della Casa Pontificia, Reverendo Padre Roberto Pasolini, O.F.M. Cap.