Centrafrica: tensioni a Bangui, speranze per disarmo gruppi armati
di Giada Aquilino
Un nuovo appello alla calma e alla responsabilità a Bangui e in tutto il Centrafrica è venuto dal cardinale Dieudonné Nzapalainga, l’arcivescovo della capitale del Paese africano, dopo che sabato scorso un caffè del quartiere musulmano PK5 della città è stato attaccato da uomini armati, con un bilancio di almeno 7 morti e una ventina di feriti. La stampa parla delle “prime significative violenze” da mesi: nel giugno scorso infatti è stato firmato a Roma un accordo tra i diversi gruppi politico-militari del Paese, con la mediazione della Comunità di Sant’Egidio.
La situazione “non è degenerata” ed al momento “è sotto controllo” racconta da Bangui padre Federico Trinchero, missionario carmelitano scalzo che opera al locale Convento di Nostra Signora del Monte Carmelo. In città, spiega, “c’è una presenza massiccia dell’Onu: quindi è veramente difficile che la situazione degeneri com’era successo nel 2013-2014”, quando scoppiarono sangiunosi scontri e feroci violenze tra gruppi armati Seleka e milizie anti-Balaka.
Padre Trinchero ricorda lo spirito di riconciliazione portato dalla visita del 2015 di Papa Francesco: a due anni di distanza, osserva che oggi “il problema vero del Paese è la situazione della provincia, ancora occupata all’80% da gruppi ribelli, molto frammentati al loro interno”. Le zone più critiche rimangono Bangassou, Bria, Bocaranga, dove le tensioni hanno generato distruzione, morte e un ampio flusso di profughi. Lo Stato, anche per la mancanza di un “esercito effettivo, vero e proprio”, “fatica a imporsi in queste zone”, prosegue il carmelitano. “E la causa della guerra del Centrafrica - mette in luce - fu proprio l’assenza dello Stato nella provincia e nelle zone lontane dalla capitale, una questione questa che aveva creato un malcontento” profondo.
A livello internazionale “c’è ancora molta preoccupazione per la situazione generale del Paese”, spiega Mauro Garofalo, responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio, che nei giorni scorsi ha partecipato alla sessione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dedicata alla crisi in Centrafrica. Ma, aggiunge, a New York sono comunque emersi “segnali positivi, come l’inizio di un progetto di disarmo che sta andando avanti su tutto il territorio”, e anche progressi dal punto di vista socio economico.
A proposito dell’accordo tra i gruppi armati, Garofalo precisa che sarà necessario “ancora molto tempo per un’implementazione completa”. Alcuni gruppi hanno aderito in maniera “più veloce e onesta” all’intesa, evidenziando che “qualche centinaio di elementi armati ha già disarmato”: la Comunità di Sant’Egidio, assieme alle realtà locali e internazionali, conta di “arrivare a 600, se non a mille, da qui a dicembre-gennaio”. L’obiettivo è “convincere i 14 gruppi armati - e forse anche di più - ad aderire al progetto di disarmo e ad una riconversione”, perché si tratta di “centinaia e migliaia di uomini che hanno vissuto in un clima d’illegalità e di grande violenza” fin qui ed ora non si può pensare “che il Paese diventi un grande carcere”, ma lavorare, conclude Garofalo, ad una smobilitazione, ad un disarmo totale e ad una riabilitazione.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui