Una speranza nasce anche dalla violenza jihadista: i bimbi di Aleppo
Giada Aquilino - Città del Vaticano
Bambini senza un’identità, mai registrati all’anagrafe, a cui sono state strappate infanzia e istruzione, respinti dalla società perché nati nel periodo della violenza jihadista da matrimoni temporanei, unioni forzate, stupri. Sono almeno tremila, vivono in particolare alla periferia est di Aleppo: a loro e a tutti i bambini della Siria martoriata da sette anni di guerra è rivolto il progetto: “Un nome e un futuro”, portato avanti dal vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. George Abou Khazen, dal padre francescano Firas Lufti, superiore del collegio di Sant’Antonio, e dal gran mufti, Mahmoud Akkam, attraverso una raccolta fondi coordinata dall’associazione Pro Terra Sancta. “Sono bambini nati durante la guerra, da matrimoni durati solo alcuni mesi, tra i jihadisti; e poi ci sono anche bambini rimasti orfani di padre durante il conflitto o i cui papà sono tornati nei Paesi di origine; anche le madri a volte ci sono, a volte sono morte o rimaste gravemente colpite dalle violenze”, racconta padre Firas Lufti.
Sette anni di guerra in Siria
In Siria, “sette anni di guerra continua, tra le più terribili, hanno lasciato segni indelebili. È una guerra che apparentemente è finita - sono cessate le bombe - però sono rimaste ferite che richiedono assolutamente un intervento di emergenza”. Quindi un impegno per la loro registrazione anagrafica e per una legittimazione giuridica perché in tanti “non sono ancora riconosciuti”, spiega il francescano della Custodia di Terra Santa, e poi un aiuto per cibo, acqua, istruzione ma anche per un recupero psicologico e sociale. Questi piccoli vivono quasi tutti “per strada”. “A volte - poche - hanno una dimora dove vivono con la mamma o con i parenti: un nonno o una nonna. In tutti i casi, comunque, hanno una grandissima violenza dentro di loro”, i traumi fisici e psicologici del conflitto.
Lo spirito interreligioso
Avviato da qualche mese, il progetto prende forma giorno dopo giorno, grazie alla collaborazione con la comunità musulmana. “Anche questa è una sua bella caratteristica: il progetto prende origine da un dialogo tra il mondo musulmano e quello cristiano, che è nato, si è rafforzato ed è stato incrementato in questi anni di guerra”.
La speranza in una società frantumata
Una certezza, questa, nell’ottava Pasqua celebrata in guerra a cui, nonostante le incertezze, si affianca una speranza. “Guardiamo alla grazia di Dio, di un Dio che già si è fatto uomo per noi, che è morto e anche risorto, di un Dio che non ci abbandona. Crediamo proprio che possiamo farcela almeno ad alleggerire ed alleviare il peso di questo conflitto. È chiaro che non possiamo coprire tutti i bisogni di una società frantumata, distrutta e flagellata dalla guerra. Però, come direbbe Madre Teresa di Calcutta, la nostra è una goccia nell’oceano ma, senza questa goccia, l’oceano non sarebbe lo stesso”.
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