Card. Montenegro su migranti fuggiti: accoglienza non è solo “ti tolgo dal mare”
Antonella Palermo – Città del Vaticano
Sulla vicenda delle persone che facevano parte del gruppo di migranti presenti sulla nave Diciotti e poi trasferiti, e che si sono allontanate dai centri di accoglienza Caritas e dal centro Mondo Migliore a Rocca di Papa, interviene ai microfoni di Radio Vaticana Italia il cardinal Francesco Montenegro, Presidente di Caritas italiana
R. – Io ritengo che questa gente che parte dalle proprie terre non arriva qua per essere prigioniera o entrare in un esercito. È gente che parte con un progetto. È gente che ha necessità, che parte perché c’è la guerra o la fame. Ed è gente che parte pensando che potrebbe trovare un lavoro, ricongiungersi con la famiglia, stare con gli amici per poter iniziare una vita nuova. Una cosa del genere non la faremmo anche noi? Anzi, posso dire, non l’hanno fatta anche i nostri migranti? E sono proprio questi fatti, questa gente che scappa, e che poi non si trova, che vuole andare altrove, in Europa, che dovrebbe far pensare all’Europa che è tempo che si prendano delle decisioni, proprio perché è un evento così storico e grande – quello di popolazioni che si spostano da una parte all’altra – che non si può risolvere solo con un piatto e un tetto. E allora è una scelta politica.
Eminenza, come risponde alle dichiarazioni del ministro dell’Interno per cui evidentemente questi migranti non avevano così tanto bisogno di cure, di accoglienza e di aiuto?
R. – L’accoglienza non è solo: “ti tolgo dal mare”. Se fosse solo questo sarebbe semplice l’accoglienza, no? Infatti qualche volta poi pensiamo: “rimandiamoli indietro”. L’accoglienza è permettere a una persona di costruirsi una vita dopo essere scappata da un’altra. Si dice che è gente che ha approfittato, che non ha un progetto, che rifiuta quello che gli si dà…: ma la questione è che non gli si dà ancora tutto quello che potrebbe giovare per una loro vita. I nostri migranti non sono stati presi, prelevati con le gru e portati là dove gli Stati hanno deciso. La prima parte di una accoglienza è doverosa per salvare vite; la seconda parte è altrettanto doverosa per continuare a tenere in vita una vita.
Qualche commentatore oggi sottolinea che la pur lodevole ‘toppa’ messa dalla Chiesa nel momento caldo per risolvere l’impasse della Diciotti era destinata a non reggere a lungo…
R. – Si è messa una toppa perché in quella situazione andava messa una toppa: non si potevano lasciare quegli uomini in mezzo al mare in attesa che chi era nella stanza dei bottoni prendesse le sue decisioni. Quella è una emergenza umana: ed è l’umanità che deve cercare di trovare soluzioni. Quindi, per dare soluzione ad un fatto, come quello di una nave e di gente che vi era sopra in attesa di chissà che, ci si è mossi. Ma non finiva con quel gesto la storia di quegli uomini. E non era solo la Chiesa che doveva: la Chiesa ha messo la toppa, ma il resto? Per mettere una toppa ci vuole un abito. Adesso non stiamo trovando l’abito dove attaccare le toppe.
Se non ci fossero più possibilità concrete, anche da parte della Chiesa, di trovare le risorse necessarie per fornire una prima assistenza, che cosa potrà accadere in Italia?
R. – Non credo che dovremo mettere alla porta il cartello “fallimento”. Perché qui il problema – io l’ho sempre detto – non è la migrazione: la migrazione è la conseguenza di un’ingiustizia che continua a reggersi nel mondo e a governare la storia del mondo. Questa gente sta pagando quello che altri, che poi normalmente si chiamano i “civili”, hanno fatto e di cui hanno approfittato: la colonizzazione, l’andare ad occupare quelle terre, a prendere le materie prime… E fino a quando ci sarà l’ingiustizia, ci sarà chi farà le valigie e partirà. Allora, qua dobbiamo chiederci se c’è uno stile che deve cambiare, quali sono le scelte vere da fare. E questo non potrà farlo la Chiesa, che deve essere sempre disponibile a dare una mano dove c’è un uomo che soffre. Hanno inventato i tavoli di politica e c’è una politica che dovrebbe affrontare questo problema, e dovrebbe farlo perché mi sembra strano che dopo trent’anni e più di immigrazione ancora non riusciamo a trovare degli sbocchi. Oggi vediamo pure quanto sia diventato facile sparare: ormai se una cosa non mi piace posso usare le armi, o per gioco o per divertimento o per spaventare… Si sta creando un clima di rottura per il quale tutti dobbiamo sentirci responsabili. Perché l’accoglienza – per me, come credente – è una casa ed è un piatto, ma anche un ‘con-cuore’.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui