Eritrea: appello di Padre Zerai per non rimanere indifferenti
Claudia Valenti – Città del Vaticano
In questi ultimi anni molti eritrei sono fuggiti dal loro Paese. Una parte consistente si è fermata in Etiopia, che attualmente ne ospita 175.000, e in Sudan, che ne accoglie 110.000. Altri invece si sono diretti e continuano a dirigersi verso nord. Arrivati in Italia, si spostano in Svizzera, Germania, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia e Regno Unito, salpano per il Canada e gli Stati Uniti. Sono moltissimi quelli che muoiono durante la fuga, durante un viaggio che dovrebbe riportarli alla libertà. “La comunità internazionale – ha dichiarato a Vatican News Padre Mussie Zerai, sacerdote dell’eparchia di Asmara - non può far finta di non vedere tutta questa gente, che è talmente disperata da rischiare la vita nel deserto o nel mare”.
Un Paese segnato dai conflitti
Nel 1998 la tensione tra Etiopia ed Eritrea è andata aumentando fino sfociare in una una guerra lunghissima, che sembra essersi conclusa solo quest’anno, lo scorso luglio, grazie ad un accordo di pace fra il Presidente eritreo Isaias Afeworki e il premier etiope Abiy Ahmed. La pace ufficiale con l’Etiopia non sembra però aver cambiato la situazione né arrestato l’esodo eritreo. “Nonostante la pace – ha raccontato Padre Mussie Zerai - nel giro di poche settimane sono fuggiti 300.000 eritrei in Etiopia. La loro è una fuga, perché non hanno fiducia nel loro governo, in un regime che non sta affatto cambiando”. “Fino ad ora – ha continuato Padre Zerai - le scelte del regime venivano giustificate dallo stato di guerra. Ma ora, non sappiamo quali siano le ragioni che ancora trattengono il governo a cambiare. Temo che il regime voglia mantenere un potere a partito unico, aprendo il mercato, ma non aprendosi affatto sul piano dei diritti e delle libertà”.
Uno Stato prigione
“Quello di Asmara – afferma Padre Mussie Zerai nella lettera inviata a Fides - è uno dei regimi politici più duri del mondo, una dittatura che ha soppresso ogni forma di libertà, annullato la costituzione del 1997, soppresso di fatto la magistratura, militarizzato l’intera popolazione per quasi tutta la vita. Una dittatura che, in una parola, ha creato uno Stato prigione. Lo denunciano ormai da vent’anni i numerosi, dettagliati rapporti pubblicati da varie istituzioni e organizzazioni internazionali e dalle più prestigiose Ong e associazioni umanitarie. Valgano per tutti le due relazioni finali delle inchieste condotte dalla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, nelle quali si afferma senza mezzi termini che il regime ha eletto a sistema il terrore, rendendo schiavo il suo stesso popolo. Non a caso, nel rapporto 2016, si arriva alla conclusione che ci sono fondati elementi per deferire i principali responsabili del Governo di fronte alla Corte penale internazionale”.
I continui naufragi di chi fugge
L’incidente che è stato assurto a simbolo della continua tragedia vissuta dall’Eritrea, è il naufragio avvenuto a poche miglia da Lampedusa il 3 ottobre 2013, in cui morirono 368 persone. “Come eritreo – dice abba Mussie - chiedo che sia possibile riportare in Eritrea le salme delle vittime della strage di Lampedusa e di tutti gli altri giovani profughi annegati nel Mediterraneo e sepolti in Italia. Finora c’è stato un rimbalzo di responsabilità. È tempo di superare queste controversie, in nome di un principio umano di grande significato: dare alle famiglie un luogo dove pregare per i propri cari”.
Una libertà ancora da riconquistare
Il regime infatti non ha allentato la presa sulla popolazione: nelle prigioni sono ancora detenuti decine di prigionieri politici, le commissioni internazionali non possono entrare nelle carceri e ogni forma di libertà, a cominciare da quella politica e quella religiosa, non è garantita. “Anche di recente – continua abba Mussie – sono stati arrestati oppositori, sono state chiuse scuole cattoliche e islamiche, sono stati sbarrati otto centri medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca della chiesa ortodossa Abune Antonios, fermato nel 2004, si trova ancora agli arresti dopo ben 14 anni”. E, lanciando un appello alla comunità internazionale, il sacerdote conclude: “Tutta questa disperazione, tutta questa sofferenza, tutti questi morti non possono lasciare indifferenti. Adesso c’è una corsa in queste regioni, per la loro posizione strategica e per la situazione geopolitica che si è venuta a creare, ma le condizioni di vita delle popolazioni in quest’area vengono totalmente ignorate e dimenticate. Io invece chiedo proprio di non dimenticare l’uomo. L’uomo, la sua dignità e i suoi diritti fondamentali devono essere al centro delle relazioni fra i paesi, al centro delle agende politiche, di quelle economiche e militari”.
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