Migranti riportati in Libia. Scavo: è reato internazionale
Fabio Colagrande - Città del Vaticano
Sarebbero tutti sani e salvi, e riportati indietro, i 393 immigrati recuperati dalla Guardia Costiera libica nella giornata di ieri. Lo fa sapere il Ministero dell’interno italiano. In particolare, 143 sarebbero stati riportati a Tripoli. 144 a Misurata, 106 ad al-Khoms. "La collaborazione funziona, gli scafisti, i trafficanti e i mafiosi devono capire che i loro affari sono finiti”, ha commentato il ministro responsabile del Viminale, Matteo Salvini. Domenica 20 gennaio, una nota di Palazzo Chigi, aveva reso noto che il Governo italiano era in continuo contatto con la Guardia costiera libica perché effettuasse l’intervento su un barcone in avaria in acque territoriali libiche, a circa 60 miglia dalla terraferma, con a bordo circa 100 persone, e mettesse in sicurezza i migranti.
Libia non è ‘porto sicuro’
“Queste persone sono state riportate in Libia ma in violazione del diritto internazionale, come ha ribadito questa notte l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati”, commenta Nello Scavo, giornalista di Avvenire, reporter e scrittore, ai microfoni di Radio Vaticana Italia. “E questo perché la Libia non è internazionalmente riconosciuta come ‘porto sicuro’ e quindi si sono creati i presupposti per quello che tecnicamente è il reato di respingimento unilaterale. In altre parole, i migranti non possono mai essere riportati verso un luogo dal quale sono fuggiti, anche a causa di torture e persecuzioni”.
Poco controllo e corruzione altissima
“Ricordiamo che nei recenti sbarchi, alcuni dei quali tragici con la morte di almeno 120 persone, fra i superstiti vi erano alcuni migranti che erano stati registrati precedentemente dalle Nazioni Unite come richiedenti asilo in Libia”, spiega Scavo. “Questo vuol dire che si trovavano nelle prigioni governative dalle quali, non si sa come, o forse sappiamo benissimo come, sono riusciti a scappare”. “Ciò significa che in Libia non c’è nessun controllo e c’è un livello di corruzione altissimo”, aggiunge il giornalista di Avvenire. “Come hanno spiegato recentemente l’Alto commissariato Onu per i rifugiati e il rappresentante dell’Onu in Libia, Salamé, al Consiglio di sicurezza, queste prigioni governative, oltre a essere luoghi di tortura sono molto ‘porose’. E rispondono a regole che potremmo definire di ‘mercato’: c’è una domanda è offerta di migranti da parte dei trafficanti e degli scafisti e queste persone riescono a scappare”. “Quindi – aggiunge Scavo - pensare di riportarle in Libia, dove debbono sopportare questo trattamento e soprattutto in luoghi che non sono sicuri, nei quali debbono essere schiavizzate e pagare per poter fuggire, non è certo tranquillizzante”.
Nella filiera dei flussi non solo trafficanti
“Domenica 20 gennaio, nel dopo Angelus, il Papa, riferendosi ai 170 migranti morti al largo delle coste africane nei giorni scorsi, li ha definiti ‘vittime, forse, di trafficanti di esseri umani’ con una dicitura giustamente prudente”, nota ancora il giornalista. “È opportuno infatti ricordare che la responsabilità di queste tragedie è legata a una filiera molto complessa che sta dietro ai flussi migratori e coinvolge in Libia, non solo trafficanti di uomini, ma esponenti politici, vertici militari, esponenti di varie milizie”. “Ricordiamo che nel Paese sono almeno 100 le milizie che si stanno contendendo gli spazi principali del territorio, ma il numero sale se si considera l’intera regione”, spiega Nello Scavo. “Come dimostrano le inchieste delle Nazioni Unite, i cosiddetti trafficanti di uomini spesso in Libia sono l’altra faccia del potere costituito. Molte strutture di vertice nelle istituzioni politiche o militari sono sotto indagine della Corte penale internazionale dell’Aja per traffico di esser umani. Quindi è un partita molto ampia e complessa”.
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