Burkina Faso. Card. Ouédraogo: urgente dialogo e sostegno

Viviamo in una situazione drammatica, l’uccisione di padre Antonio César Fernández Fernández, ha colpito tutta la comunità. Così il card. Philippe Nakellentuba Ouédraogo, arcivescovo di Ouagadougou

Massimiliano Menichetti - Città del Vaticano

La speranza, la voglia di costruire non abbandona il Burkina Faso nonostante l’intensificarsi degli attacchi da parte dei gruppi jihadisti. Venerdì scorso è stato ucciso da un commando di terroristi il missionario salesiano, padre Antonio César Fernández Fernández. E’ stato raggiunto da tre colpi di pistola mentre ritornava alla sua comunità nella capitale Ouagadougou. Uccisioni e rapimenti purtroppo negli ultimi anni si sono moltiplicati, come conferma il cardinale Philippe Nakellentuba Ouédraogo, arcivescovo di Ouagadougou:

R. - Mi hanno informato della morte di padre Antonio César Fernández Fernández mentre partecipavo alla plenaria della congregazione con il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Ho provato tristezza e compassione, lo conoscevo bene… Il primo weekend di febbraio abbiamo organizzato un pellegrinaggio diocesano a Ouagadougou, nel nostro santuario mariano, c’erano quasi 500 mila abitanti, è stata una testimonianza forte, i fedeli sono venuti numerosi nonostante la mancanza di sicurezza. Padre Antonio era lì, distribuiva la Comunione… Come missionari non hanno una parrocchia ma lavorano per i giovani più poveri in una zona della capitale. La sua morte ha colpito tutta la comunità. Viviamo in una situazione drammatica, abbiamo già avuto tre attacchi terroristici a Ouagadougou e ogni settimana ci sono disordini soprattutto alla frontiera con il Mali, con il Niger e anche all’interno, nel sud e nell’est del Paese. E’ una vera sfida per noi, per tutta l’Africa occidentale.

 

Il governo il 31 dicembre ha dichiarato lo stato di emergenza in alcune parti del Paese a gennaio le dimissioni di esecutivo e premier, il G5 Sahel (Burkina Faso, Mauritania, Ciad, Niger, Mali) ha carenza di fondi per poter affrontare il problema: che cosa serve?

R. - Noi chiediamo la solidarietà a livello internazionale, questa ci manca. La sofferenza di un popolo, di un uomo, è la sofferenza di tutta l’umanità. Ci manca la solidarietà. Tutti questi grandi del mondo che hanno potere, che hanno capacità di aiutare, devono fare qualcosa, altrimenti parliamo, parliamo, ma poi che cosa facciamo esattamente per liberare questi uomini sottomessi alla violenza, alla povertà?

 

In questo scenario cosa fa la Chiesa?

R. - E’ stato costituito un gruppo informale: musulmani, protestanti, la Chiesa cattolica, abbiamo voluto lavorare nella collegialità con i capi tribù che hanno un influsso enorme tra la popolazione. Insieme cerchiamo di vivere il dialogo interreligioso e culturale. Pensiamo che non è attraverso il kalashnikov che si può fare la pace, noi puntiamo sul dialogo. Abbiamo bisogno di conoscerci, di rispettarci gli uni gli altri, di lavorare insieme.

Qual è un suo auspicio, il suo appello per il Paese?

R. - Il mio appello è ad intra e ad extra. Ad intra, per il Paese, è necessario sollecitare la popolazione a cooperare con l’esercito, la polizia, la gendarmeria, tutti quelli che hanno il compito di costruire di vigilare sulla pace, di pacificare il Paese. Questo è molto importante. Dobbiamo porci delle domande: perché tante persone del luogo cooperano con i jihadisti? Bisogna sapere il perché e trovare la soluzione. A causa della povertà? Dell’ignoranza? Bisogna capire e risolvere questa deriva. Il mio appello ad extra invece è per i grandi del mondo. Abbiamo bisogno di una certa solidarietà. Il G5 è una speranza, ma questi Paesi che hanno volontà ma posseggono la capacità finanziaria, allora questi grandi dovrebbero manifestare un po’ più di solidarietà e aiutare il G5 per essere efficaci sul posto. La pace è un dono di Dio, è il frutto del lavoro degli uomini.

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18 febbraio 2019, 15:43