Priore Bose su monito Mattarella: è nell’interiorità che comincia la libertà
Città del Vaticano – Antonella Palermo
“La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva". E’ uno dei passaggi chiave del discorso del Presidente della Repubblica Mattarella alla celebrazione del 74° anniversario della Liberazione dall’oppressione nazi-fascista. Il Priore di Bose, Luciano Manicardi, autore del libro “Spiritualità e politica. Dall’interiorità all’azione” (Qiqajon, 2019), commenta su Radio Vaticana Italia il monito del Capo dello Stato.
R. - La libertà che non va barattata con qualunque altra situazione è una dimensione decisiva della vita politica. Ricordando il 25 aprile noi ricordiamo ciò che ci ha consentito di vivere nei decenni nella libertà e nella pace. Come cerco di sottolineare nel libro, tentando di fare unità tra due dimensioni spesso contraddittorie anche nella realtà di tanti politici, è importante legare interiorità e politica. Il luogo dove inizia la libertà è esattamente l’interiorità, è lì che nasce la capacità di dire di no, la capacità di una rivolta a condizioni di vita inaccettabili, il coraggio: valori che sono stati alla base del movimento che ha portato alla liberazione e al 25 aprile. Immaginare un paese finalmente libero: quello è il valore davvero non barattabile, una volontà che nasce da una interiorità convinta.
Perché cura interiore e cura della politica sono spesso separate?
R. - Mi pare che oggi la politica abbia un problema nel rapporto con il tempo. Tempi velocizzati. I tempi della democrazia richiedono concertazione, dialogo, ascolto dell’altro. Per dirla con Weber, la politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà. Dall’altro lato è vero che è difficile articolare la vita interiore. La politica richiede qualità umana e tempo. Spesso oggi il tempo è un nemico. I tempi sono appiattiti sulle elezioni più prossime e la politica non ha un respiro lungo. Bisognerebbe invece recuperare quelle dimensioni di immaginazione e creatività che hanno, ancora una volta, radici profonde in una vita interiore salda. Così si possono recuperare anche coerenza e integrità che sono un requisito che dovrebbe essere al primo posto all’interno della vita di uomini politici.
‘Popolo’ è una categoria biblica ricorrente. Come si fa oggi a contenere i rischi di degenerazione dell’uso della parola ‘popolo’?
R. - La premessa riguarda l’uso delle parole. Credo sia un problema gravissimo, questo. Abbiamo potuto vedere, nella politica italiana degli ultimi decenni ma anche nella politica internazionale, lo storpiamento, lo scempio della parola. La parola usata come arma, che non significa più quello che deve significare. Ogni parola ha una valenza etica perché è rivolta ad altri, perché esprime colui che parla e perché la parola in sé deve essere rispettata. ‘Giustizia’ diventa ‘giustizialismo’, ‘bontà’ diventa ‘buonismo’, e così via…. Credo che ci sia un lavoro da fare nel recuperare una pulizia e una ascesi della parola. Ne va del tessuto democratico. Anna Arendt diceva: non appena è in scena il linguaggio, la situazione è politica. Aristotele ci insegna che l’essere umano ha la parola e quindi è essere politico. La politica poggia su parole comuni che sono legge a cui tutti ci si sottomette. Detto questo, credo che c’è da guardarsi dalla distinzione tra il ‘servire’ e il ‘servirsi di’: servire un bene comune – cosa che richiede enorme discernimento, tenacia, capacità di mediazione – è ben diverso dal servirsi del popolo, cioè parlare alla pancia, sfruttare piuttosto che servire, appunto.
Molti auspicano un impegno più forte dei cattolici in politica. Condivide? In che termini?
R. - Mi sembra buono e auspicabile un impegno del cattolico, che traduce in politica l’ispirazione che gli viene dalla sua fede, ma non certo nel senso di una rinascita di un partito cattolico: non mi sembra che questo stia nell’agenda dell’oggi.
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