70 anni fa la tragedia di Superga. Il ricordo di padre Lombardi
Luca Collodi - Città del Vaticano
Settanta anni fa, erano le 17.05 del 4 maggio 1949, un incidente aereo portò via 31 persone e il Grande Torino. La Basilica di Superga era avvolta da una fitta nebbia. Persero la vita, tra gli altri, calciatori del valore di Bacigalupo, Ballarin, Gabetto, Loik, Valentino Mazzola, nel pieno della loro gioventù e carriera agonistica; nonché i tre giornalisti al seguito Cavallero, Casalbore e Tosatti. Una squadra imbattibile allo stadio Filadelfia che per 6 anni non perse mai.
Le iniziative per la commemorazione della tragedia uniscono oggi tutta la comunità torinese e non solo sportiva. "Grazie per la vicinanza a tutti i club presenti. Il Grande Torino orgoglio d'Italia". Con questo tweet la compagine granata ringrazia le società che questa mattina hanno reso omaggio agli 'Invincibili'. In particolare la Juventus, che ha fatto precedere il suo cordoglio dallo striscione apparso allo Stadio durante l’ultima partita proprio contro il Toro. Onore ai caduti di Superga”. Questa la scritta applaudita da tutto l’Allianz Stadium.
Oggi la delegazione bianconera è stata guidata dal presidente dello Juventus Museum e consigliere Paolo Garimberti. Nel pomeriggio a Superga sarà invece il momento di tutti i tifosi granata, della squadra e dei dirigenti che saliranno al colle alle 17, dopo la Messa solenne nel Duomo di Torino. Padre Federico Lombardi, piemontese, al tempo della tragedia di Superga era un bambino di 6 anni e mezzo. I ricordi di quel 6 maggio 1949 affiorano nelle sue parole: "Mi ricordo che era un giorno con un tempo pessimo, era pomeriggio e si diffuse come un lampo questa notizia drammatica". Padre Lombardi parla della "costernazione della città" che si mescolò rapidamente all'incredulità, "anche perchè" , dice, "si pensava che la squadra fosse invincibile":
Ogni anno i tifosi del Toro si danno appuntamento a Superga per ricordare i caduti. Davanti ad un avvenimento del genere che mescola passione e sport ci si rapporta in modo diverso davanti alla morte?
R. - Certamente c’è un senso di presenza degli eroi, delle persone che hanno compiuto cose grandi e che rimangono nel tuo cuore, nella tua mente come degli esempi, come delle figure che ti hanno ispirato. Qui bisogna anche pensare che a parte l’aspetto specificamente sportivo, che naturalmente colpisce, Torino era una città che stava rinascendo dalla guerra, aveva ancora tutte le sue ferite di distruzione e il fatto di avere una squadra simbolo così forte, così simpatica, ispiratrice, era qualcosa che per tutta la comunità cittadina – penso anche tra gli juventini – significava veramente qualcosa di bello e di grande. E allora, diciamo che la morte che è certamente il destino comune, quando arriva in un modo tragico e improvviso come in questo caso, ci si rende conto che ci sono delle cose grandi che durano e che ti fanno quindi immaginare, pensare, che la morte non è l’ultima parola. È positivo, perché è un segno che nonostante la morte fisica, ci sono delle cose che durano e che vanno al di là. Una delle cose belle è anche questo senso di fedeltà, questo senso di lealtà. Ricordo che in un certo senso anche per me fu lo stesso. Allora ero un bambino che naturalmente vedeva questa era la prima squadra a cui io avevo tenuto del campionato di Serie A, e l’avevo sempre vista solo vincere. Una volta che questa squadra improvvisamente non esiste più, ti domandi: “Ma devo continuare a tifare per questa squadra anche se deve ricominciare assolutamente da zero?”. C’è una continuità di lealtà, fedeltà per quello che questa squadra ha significato per noi e per la nostra comunità cittadina. Quindi la risposta era “Sì!” almeno per me; è stata una delle prime prove di lealtà e di fedeltà nella vita continuare a credere e ad aspettare che la squadra si potesse ricostituire e rivivere i sui momenti di gloria; non per niente tutti i tifosi del Torino hanno vissuto poi negli Anni ’70 quell’unico momento in cui ci fu lo scudetto, con il sorpasso sulla Juve a poche giornate dal termine del campionato come un momento di gioia incontenibile.
Bacigalupo, Gabetto, Loik e Valentino Mazzola. Lei si sente un adulto che ha imparato ad amare il Toro fin da bambino?
R. - Sì, certamente. Io continuo ad interessarmi di cosa succede il sabato o la domenica quando il Toro gioca e continuo a sperare che avvicini, anche se non potrà mai uguagliare, quelle che sono state le imprese del Grande Toro della nostra infanzia. Per tutti noi dopo la tragedia di Superga, guardare verso la collina e vedere in cima la basilica, che è un aspetto fondamentale del panorama della nostra città, è sempre accompagnato dal pensiero: “Se l’aereo fosse passato a poche decine di metri più in su non sarebbe successo nulla”. Purtroppo questo non è avvenuto.
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