Mons. Bertin: sostegno di Caritas Somalia per i profughi dello Yemen
Roberto Piermarini - Città del Vaticano
Il mondo sembra aver dimenticato la Somalia. Eppure il Paese africano continua ad essere teatro di attentati ed attacchi degli integralisti islamici al-Shabaab. La cellula somala di Al Qaeda, cacciata da Mogadiscio nel 2011 ma presente ancora in vaste aree rurali, rimane la principale minaccia alla pace in Somalia. Anche ieri a Mogadiscio, l’esplosione di un’autobomba ha provocato 10 morti. Del martoriato Paese, ci si ricorda solo per i profughi somali che arrivano in Europa. Altro fenomeno dimenticato: le migliaia di sfollati del vicino Yemen che fuggono dalla guerra civile con ogni mezzo rischiando la vita nelle acque del Golfo di Aden, che come il Mediterraneo, sta diventando un cimitero per molti di loro. Chi riesce a raggiungere le coste somale, riceve l’aiuto della Caritas locale. Di questo “silenzio del mondo” nei confronti della Somalia ne è convinto anche mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, in questi giorni a Roma per la XXI Assemblea generale di Caritas Internationalis
R. – In effetti di Somalia se ne parla soprattutto quando ci sono degli attacchi, delle azioni terroristiche o quando gli americani che bombardano qualche ribelle … Se ne parla solo in quel momento oppure quando c’è siccità. Sono stato di recente prima in Kenya - tre settimane fa – al campo rifugiati di Dadaab dove ci sono 270 mila profughi somali; poi sono stato nella Somalia del Nord ad Hargheisa, in Somaliland. C’è una grande siccità. Per fortuna una settimana fa è cominciato a piovere. Ma siamo in ritardo di più di un mese. C’è il rischio di una nuova una carestia. Questo per dire che quando ci sono degli avvenimenti un po’ straordinari, come uccisioni o siccità, allora se ne riparla.
Ma qual è oggi la realtà della Somalia?
R. - Secondo la realtà non è cambiata molto in questi ultimi dieci anni. La caratteristica principale è l’insicurezza, soprattutto per le istituzioni che stanno un po’ rinascendo; insicurezza per gli stranieri e naturalmente per i cittadini somali. Bisogna pensare che ci sono almeno due milioni di sfollati interni a causa sia della siccità sia del fatto che diverse zone della Somalia, soprattutto all’interno, sono in mano ad un’opposizione di carattere islamista.
Per quanto riguarda la realtà degli sfollati, che realtà ha trovato nei campi profughi?
R. - Molti lasciano la Somalia – soprattutto giovani – e il Somaliland che è più pacifico non solo per difficoltà legate all’aspetto economico, ma soprattutto per la mancanza di libertà culturale, religiosa, individuale. Allora, questi giovani cercano di potersi esprimere, solo che si trovano di fronte ad una società che è diventata, almeno ufficialmente, più islamista oppure ad una società di totale insicurezza. Se uno non appartiene ad un clan potente o no ha un membro della famiglia potente non può andare avanti.
In questa difficile situazione come si muove la Chiesa?
R. - La Chiesa ha una piccola presenza nel Nord - proprio ridotta – che si manifesta soprattutto attraverso azioni umanitarie, attraverso la nostra Caritas. In questo momento stiamo appoggiando i rifugiati dallo Yemen – yemeniti – perché di fronte a noi, al di là del Golfo di Aden, c’è una guerra civile che continua e che a volte, addirittura, sembra quasi più sconosciuta della Somalia! Quella dello Yemen è una situazione veramente disastrosa. Quindi abbiamo dei rifugiati sia a Gibuti sia un Somalia. Abbiamo intrapreso delle azioni umanitarie nei loro confronti.
C’è un dialogo con la componente islamica moderata?
R. - Non abbiamo veramente un dialogo né ufficiale né con le autorità, ma a livello individuale, personale, le nostre azioni umanitarie passano di solito attraverso somali che conosciamo. A quel livello non ci sono grosse difficoltà, perché in quel caso è soprattutto l’essere umano che si incontra ed è facile. Man mano che si sale per motivi ideologici o politici diventa più difficile.
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