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Giornata mondiale degli operatori di pace dell'Onu Giornata mondiale degli operatori di pace dell'Onu 

Proteggere i civili per meglio tutelare la pace

“Mantenere la pace è una necessità e una speranza per milioni di persone in situazioni di conflitto nel mondo”, così il segretario generale dell’Onu nell’odierna Giornata mondiale degli operatori di pace. Intervista al prof. Marco Mascia, esperto di diritti umani

Roberta Gisotti – Città del Vaticano

Sono oltre un milione gli uomini e le donne, che sotto l’egida delle Nazioni Unite, sono stati impegnati in 72 missioni di mantenimento della pace, a partire dal primo mandato, quando il 29 maggio del 1948 fu inaugurata in Medio Oriente la prima operazione di peace keeping per monitorare l’accordo di armistizio raggiunto tra israeliani e arabi in Palestina.

Rendere più efficace il ruolo delle forze di pace

Da allora non è quantificabile il numero di persone che hanno beneficiato della presenza dei peace keepers, noti per la loro divisa come ‘caschi blu’. Da qui l’appello lanciato oggi dal segretario generale dell’Onu, António Guterres, a lavorare “insieme per rendere il mantenimento della pace più efficace nel proteggere le persone e far progredire la pace".

3800 operatori di pace morti durante le missioni

In questa Giornata mondiale si rende omaggio al prezioso contributo del personale - in uniforme e civile - delle Forze di pace dell’Onu e onore al sacrificio di quanti di loro hanno perso la vita durante missioni in ogni parte del mondo: ben 3800, di cui 98 lo scorso anno.

100 mila militari, civili e volontari da 124 Paesi

Attualmente le Nazioni Unite impiegano in 14 operazioni di mantenimento della pace, in quattro continenti, più 88 mila militari e poliziotti - provenienti da 124 Paesi – e quasi 13 mila civili e 1.300 volontari, con un costo contenuto di meno dello 0,5% della spesa militare globale.

Il grave disimpegno degli Stati occidentali

Eppure sono molte le resistenze degli Stati membri, specie occidentali, nel sostenere le missioni di pace dell’Onu, come spiega il prof. Marco Mascia, direttore del Centro per i diritti umani “Antonio Papisca” dell’Università di Padova:

Ascolta l'intervista a Marco Mascia

R. – Il punto è come rafforzare il ruolo delle operazioni di pace delle Nazioni Unite. Questo è uno degli aspetti più importanti da affrontare, nel senso che gli Stati fanno sempre più fatica a sostenere, a finanziare, questo tipo di missione.

Quanto pesano gli scandali che ci sono stati nel passato e l’opinione comune che queste forze di pace non risolvano i conflitti?

R. – Per quanto riguarda il primo aspetto le Nazioni unite stanno lavorando molto sul tema della prevenzione delle violazioni dei diritti umani da parte dei peace-keepers, cioè da parte dei militari che sono impiegati sul terreno. Questo è un tema che le Nazioni Unite hanno iniziato ad affrontare da tempo, addirittura istituendo  una sorta di difensore civico all’interno delle missioni. Per quanto riguarda il secondo aspetto, va detto che le operazioni di pace delle Nazioni Unite hanno una natura prevalentemente militare, cioè di interposizione e di promozione del dialogo tra le parti in conflitto. Queste ultime missioni multidimensionali hanno anche un compito legato alla protezione e alla promozione dei diritti umani. Però è importante sottolineare che queste missioni non hanno in ogni caso un mandato politico: il compito dell’operazione di pace delle Nazioni Unite è quello di fermare il conflitto, far mantenere il cessate il fuoco, creare le condizioni locali per lo sviluppo del processo di pace; ma poi spetta alla politica trovare, attraverso un negoziato, l’accordo tra le parti in conflitto. Quindi ciò che manca è il ruolo della politica. Non possiamo chiedere ai militari di svolgere anche questa funzione. Pensiamo al Libano, dove c’è Unifil, una delle più importanti missioni e operazioni di pace delle Nazioni Unite, che è dispiegata nel pieno rispetto dei principi enunciati nel diritto internazionale: sono lì dalla metà degli anni ’70 e riescono anche a mantenere pace in quella zona però spetta alla politica risolvere la questione del conflitto mediorientale, non certo ad un’operazione di pace delle Nazioni Unite.

Lei crede che sia importante che cresca anche nelle opinioni pubbliche la stima verso questi operatori di pace dell’Onu, perché vi sia il  sostegno degli Stati?

R. – Certo, e va ricordato, per dare un ordine di grandezza, che le forze di pace delle Nazioni Unite contano oggi circa 100 mila persone. I 28 Stati membri dell’Unione europea forniscono poco meno di 6 mila caschi blu. I cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite forniscono poco meno di 4 mila caschi blu. Gli Usa ovviamente nessuno. Le truppe provengono in massima parte da altri Paesi come Etiopia, India, Pakistan, Rwanda, Bangladesh, Nepal… Quindi c’è un disimpegno dei Paesi occidentali nelle operazioni di pace dell’Onu. Bisognerebbe avviare una riforma dell’azione e delle strutture delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale: cioè, queste operazioni di pace dovrebbero diventare delle forze permanenti, cosa che non sono, e dovrebbero essere adeguatamente formate a svolgere quel tipo di ruolo. Si tratta, in altre parole, di dar vita al sistema di sicurezza collettivo, previsto dal capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite: cioè, la messa a disposizione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in via permanente, di parte delle Forze armate degli Stati membri dell’Onu. Allora, a quel punto, si può pensare veramente ad un ruolo delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Bisogna poi accompagnare a questo processo anche quello della democratizzazione delle Nazioni Unite: più potenziamo una istituzione internazionale, più quella istituzione internazionale, allo stesso tempo, deve essere democratizzata.

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29 maggio 2019, 14:28