Papua N.G.: la drammatica situazione nel campo profughi a Manus Island
Eugenio Serra – Città del Vaticano
La maggior parte delle persone trattenute a Manus sono giovani, hanno uno stato di salute preoccupante e necessitano di cure, che non possono essere affrontate adeguatamente in Papua Nuova Guinea. Questo è lo scenario che padre Giorgio Licini ci presenta.
R. – A Manus Island c’è una situazione particolarmente tragica perché circa 500 rifugiati politici richiedenti asilo che l’Australia ha isolato dal 2013 sono in uno stato di particolare crisi di salute che coinvolge soprattutto la stabilità mentale. Ci sono molti casi di autolesionismo e anche alcuni casi di tentato suicidio a causa della mancata soluzione della loro situazione. Sono isolati lì dai 6 anni - da luglio 2013, i primi arrivi; poi gli ultimi in febbraio 2014 -, non hanno alcuna possibilità concreta di essere trasferiti in un Paese terzo o in Australia stessa e quindi ricominciare una nuova vita.
Da dove vengono e chi sono i richiedenti asilo di Manus Island?
R. – Sono giovani tra i 25 e i 35 anni che hanno lasciato il loro Paese, alcuni anche giovanissimi, tra i 17 e i 18 anni. Provengono dall’Africa orientale, in particolare Sudan e Somalia e dal Medio Oriente Iran, Iraq Libano e poi, venendo giù, Pakistan, Afghanistan, Bangladesh e Sir Lanka. Questi sono i Paesi di origine di quasi tutti loro. Poi alcune unità da altri Paesi.
Perché l’Australia ha voluto questo centro?
R. – Nel 2011, 2012 e anche 2013 c’era un flusso di barconi dall’Indonesia verso l’isola australiana di Christmas Island che è un po’ come Lampedusa per l’Italia, cioè un’isola molto distante dalla terraferma ma un possibile primo approdo. Quindi l’Australia per certi versi ha dichiarato che questo tipo di migrazione non poteva essere accettabile per loro. C’erano anche molti naufragi e quindi ci sono state vittime e nel 2013 il governo laburista ha deciso di creare una deterrenza e la deterrenza è stato di prendere alcune centinaia, forse a quel tempo un totale circa 2000 di queste persone, e stabilire dei campi fuori dal territorio dell’Australia. L’obiettivo in qualche modo era lo stesso, guardare alla situazione di ciascuno di loro, cercare di capire e vedere se potevano poi tornare al loro Paese o essere trasferiti altrove, quindi hanno creato questi due campi. Uno a Manus in Papua Nuova Guinea e uno sulla piccola isola Stato di Nauru, quindi ancora più distante nel Pacifico. Il problema è che dopo il febbraio 2014 non c’è stato un ricambio. Certamente ci sono stati altri arrivi regolari in Australia ma le persone trattenute a Manus e Nauru sono ancora le stesse da allora. Sono di meno. È vero che alcuni sono stati trasferiti in Australia per motivi di salute. Per altri c’è stata un’offerta degli Stati Uniti per riceverne alcuni e credo che circa 200 siano andati. Un numero abbastanza consistente è stato invitato o costretto a tornare al Paese di origine. Quelli che rimangono attualmente, tuttavia, circa un migliaio, non possono tornare per vari motivi ai loro Paesi di origine per motivi di pericolo oggettivo e nemmeno hanno un’offerta concreta di essere trasferiti a un Paese terzo, forse qualcuno ancora per gli Stati Uniti, qualche decina o forse anche un centinaio, 200 potrebbero ancora essere accolti ma un gruppo finale di circa 6-700 probabilmente non vede ancora alcuna possibilità se non un trasferimento in Australia per motivi di salute che sarebbe applicabile quasi a tutti loro, viste le condizioni in cui sono adesso ma per cui l’Australia non è ancora completamente disponibile.
Cosa si auspica per il futuro?
R. – La speranza immediata sarebbe quella di un trasferimento in tempi molto brevi perché, come dicevo, la situazione sanitaria non di base - nel senso che il trattamento nei campi, negli ospedali è decente da tutti i punti di vista della salute di base - ma il trattamento delle patologie psichiatriche, altri problemi che si portano dietro molti di loro relativi a infezioni cardiologiche della pelle, fratture, tonsilliti, molti altri problemi sanitari, non possono essere curati adeguatamente in Papua Nuova Guinea dove manca la capacità oggettiva e mancano anche le strutture e il numero adeguato di medici e operatori sanitari. Per cui si chiede con insistenza all’Australia di prendersi cura di queste centinaia di persone rimaste e compiere un gesto di umanità che però a questo punto è anche di buon senso.
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