Vittime di tortura: decine di migliaia nel mondo ogni anno
Roberta Gisotti – Città del Vaticano
La tortura è un crimine sancito dal diritto internazionale, non è mai consentita né giustificata, nemmeno in casi di emergenza, instabilità politica, minaccia di conflitto armato e perfino stato di guerra. Lo ricorda l’Onu, in vista della Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, che ricorre il 26 giugno, istituita nel 1997 per rimarcare quanto stabilito già 70 anni fa nella Dichiarazione Universale dei diritti umani, proclamata nel dicembre del 1948: “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”.
Una grande sfida non ancora vinta dalle Nazioni Unite
Eliminare la pratica della tortura è stata tra le prime e maggiori sfide affrontate dalle Nazioni Unite, fino all’approvazione nel 1984 della Convenzione contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti, entrata in vigore nel 1987 ed oggi ratificata da 163 Paesi, gran parte dei quali si rende però colpevole di trasgressioni, come denunciato da diverse organizzazioni umanitarie.
Oltre 50 mila le vittime registrate ogni anno
La lotta a questa pratica aberrante e vigliacca, che mira ad annientare la personalità della vittima e a negare la dignità della persona, deve continuare e rafforzarsi così come il sostegno a quanti, centinaia di migliaia di donne, uomini, giovani, sono stati in passato e sono ancora oggi torturati. Il Fondo dell’Onu per le vittime della tortura - sorto nel 1981 e finanziato con contributi volontari degli Stati - assiste ogni anno oltre 50 mila persone. Sono vittime di torture fisiche e psichiche, ed è difficile stabilire se i danni permanenti alla persona siano più gravi, in un caso o nell’altro.
La tortura persiste anche negli Stati sviluppati
Allo scopo di prevenire la tortura le Nazioni Unite hanno attivato un sistema di visite regolari nei Paesi da parte di organismi internazionali e nazionali indipendenti, ma l’alto numero di vittime sopravvissute, molte delle quali non riconosciute e non sostenute, è la prova della drammatica persistenza di questa pratica in tutto il mondo, sovente tollerata anche nei Paesi democratici nel contesto della lotta al terrorismo. Altissima resta l’impunità, tanto che in molti Stati le prove d’accusa ottenute con la tortura sono ammesse nei tribunali, nonostante studi in materia ed opinioni di criminologi abbiamo dimostrato l’incertezza e l’infondatezza di questo ‘strumento’ coercitivo d’indagine: sotto tortura la vittima sovente fa il primo nome che ricorda, incolpa chiunque perfino se legato da vincoli affettivi, confessa reati non commessi.
Maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica
La strada per eliminare la tortura nel mondo è ancora lunga e richiede nuovi interventi e maggiore consapevolezza nella pubblica opinione della gravità del fenomeno, come spiega Riccardo Noury, portavoce in Italia di Amnesty international
R. – Purtroppo non siamo a un punto incoraggiante perché buona parte dei Paesi che hanno firmato e ratificato la Convenzione dell’Onu contro la tortura, negli anni successivi alla sua adozione, si sono resi responsabili di torture saltuarie o sistematiche, non dando la minima idea di voler rispettare il dettato di quel trattato. La tortura in altre parole è universalmente vietata e quasi universalmente praticata. Ogni anno Amnesty international ha riscontrato casi di maltrattamenti e torture in un centinaio di Paesi. Certamente il continente in cui la tortura è maggiormente impiegata resta l’Asia, l’Oriente considerato come vicino e lontano, quindi dal Medio Oriente in poi è pratica sistematica, quasi politica di governo di molti Paesi. Però non c’è un continente nel quale la tortura sia stata definitivamente messa al bando. Può esserlo nelle forme più rudimentali delle torture fisiche. Però oggi in molti Stati, soprattutto quelli più sviluppati, ci sono forme di tortura che non prevedono il contatto tra il torturatore e il torturato. Penso all’isolamento sistematico o a tutta una serie di tecniche di deprivazione sensoriale che sono state praticate a Guantanamo da parte degli Stati Uniti, così come in altri Paesi, come la Cina, nei confronti di prigionieri politici.
La tortura è anche un business.
R. – E’ un grande business. Questo chiama in causa i Paesi più ricchi, quelli che dovrebbero essere all’avanguardia dal punto di vista dello sviluppo di una civiltà giuridica in favore del rispetto dei diritti umani. Questi Stati, invece, usano l’avanzamento tecnologico per produrre marchingegni infernali dalle sedie di contenimento fino ai manganelli elettrici, dalle cinture elettriche ai manganelli acuminati e altre diavolerie che oggi sono da tortura moderna, quella che lascia poche tracce visibili sui corpi delle persone ma segni indelebili nella psiche. Se penso all’orrore di alcuni strumenti, come le sedie o le cinture elettriche - usate in molti Stati negli Usa o nel Sudafrica - che scaricano alta tensione sui reni del prigioniero che ha queste cinture costantemente intorno alla vita… Ci sono pochi altri strumenti dell’orrore come quelli.
La tortura è ancora largamente praticata però se ne parla poco.
R. – E’ vero, è quasi un tabù ma è quasi come non esistesse più. Oppure c’è la consapevolezza che esiste ma è qualcosa che allontaniamo da noi perché incompatibile con il livello di civiltà e sviluppo che abbiamo raggiunto e devo dire anche perché sempre di più la tortura ha obiettivi mirati, serve contro le minoranze, contro i dissidenti, contro i cittadini stranieri, contro gli appartenenti a fedi religiose minoritarie, contro le donne, contro le persone Lgbt. Persone che nella maggioranza dei casi non suscitano grande attenzione o solidarietà. E’ come se venisse riservata in qualche modo agli ‘altri’ e dunque c’è un parte della società che non se ne interessa.
Quest’anno qual è l’impegno di Amnesty su questo importante fronte dei diritti umani?
R. – C’è un’importante scadenza. In questi giorni nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite si discute una risoluzione per stringere e rafforzare i controlli sull’esportazione di strumenti di tortura. Nel mondo non c’è ancora un consenso sul fatto che queste ‘diavolerie’ non debbano essere prodotte o commercializzate; perfino l’Unione europea ha regolamenti molto blandi con un sacco di scappatoie. Allora, questa risoluzione dovrebbe rafforzare tutti i controlli impedendo che si facciano soldi letteralmente sulla pelle delle persone e quindi l’intento di questi giorni è di arrivare all’adozione di questa risoluzione all’Onu.
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