Sudan: risposta violenta dei militari alle proteste di piazza
Roberta Gisotti – Città del Vaticano
Almeno sette morti e 200 feriti è il nuovo tributo di vite umane tra la popolazione sudanese, che dal dicembre scorso chiede pacificamente ma con determinazione democrazia per il proprio Paese e quanto prima un governo civile, dopo l’insediamento di una giunta militare, che nell’aprile scorso ha destituito il presidente Omar al-Bashir, rimasto al potere per 30 anni.
La difficile strada verso elezioni democratiche
Una strada di transizione verso elezioni democratiche, che i militari sulla carta hanno promesso di voler percorrere ma che si è da subito annunciata difficile e piena di incognite, specie dopo la repressione violenta, il 3 giugno scorso, da parte di forze paramilitari delle manifestazioni popolari di piazza, organizzate davanti al quartier generale dell’Esercito, nella capitale Khartoum, per chiedere il passaggio dei poteri ad un’autorità transitoria guidata da civili. Un centinaio i morti in quel drammatico attacco ai partecipanti al sit in, che durava da due mesi.
30 anni dopo il golpe di al- Bashir, i cittadini chiedono libertà
Ieri i nuovi gravi episodi di violenza a Khartoum e in altre città del Sudan, dove la società civile ha sfilato in vari cortei - indetti nel 30mo anniversario del golpe che portò al potere il temuto ed odiato al-Bashir - chiedendo l’uscita di scena del Consiglio militare di transizione, guidato dal generale Abdel Fattah Burhan, che oggi governa l’esteso Paese africano, a maggioranza islamica, dove vivono circa 42 milioni di persone, da anni in grave crisi economica.
Gli interessi del mondo arabo e il ruolo dell’Unione africana
Una situazione complessa con tante incognite e interessi in gioco, non sempre facili da decifrare dall’esterno del mondo arabo, come spiega Giulio Albanese, sacerdote comboniano, esperto di Africa, direttore della rivista “Popoli e Missione”.
R. – Il problema di fondo è che, con l’uscita di scena, l’11 aprile scorso, del presidente padrone, Omar Hassan al-Bashir, questo Paese sta vivendo un momento estremamente critico: rischia di cadere ‘dalla padella alla brace’. E questo perché la società civile, ma non solo - direi notevoli componenti delle opposizioni - chiedono a squarciagola di voltare pagina e dunque una maggiore partecipazione, in sostanza un regime democratico ma la verità è che nella stanza dei bottoni, al momento, c’è una giunta militare, che ha il controllo del Paese. Una giunta militare che, non dimentichiamolo, è preoccupata di trovare innanzitutto e soprattutto consensi, che possano garantire il mantenimento di un assetto conforme agli interessi del mondo arabo. Dico questo perché, per esempio, l’Arabia Saudita, come anche gli Emirati Arabi Uniti, sin dall’inizio di questa transizione sudanese, hanno sostenuto finanziariamente Khartoum, assicurando l’erogazione di 3 miliardi di dollari. Naturalmente, la contropartita che offre la giunta militare è la conferma del proprio impegno militare nello Yemen al fianco della coalizione arabo-sunnita. E dunque questa giunta militare è evidente che è paladina di interessi che hanno a che fare anche con il mondo salafita, con il mondo islamico che, in una maniera o nell’altra, vuole imporre la propria influenza in Sudan a tutti i costi. C’è una componente all’interno della giunta, direi estremamente reazionaria, radicale: quella legata alle forze di sicurezza. Mi riferisco alle Rapid Support Forces, che sono sotto il comando di Mohamed Hamdan Dagalo, che è stato il comandante supremo dei Janjaweed, i famosi ‘diavoli a cavallo’, che si sono macchiati di indicibili crimini nella regione sudanese del Darfur. Ebbene, questo personaggio si sta opponendo, direi più di altri, alle istanze della società civile. Il suo ruolo sta peraltro creando grande imbarazzo tra i militari nell’ambito della stessa giunta, perché in questa giunta, se da una parte ci sono i reazionari, ci sono anche le colombe, che vorrebbero in una maniera o nell’altra mantenere aperta la via del dialogo con la società civile. Ma certamente, se il Paese continuasse ad essere sotto l’influenza salafita, è evidente che questo rappresenterebbe un fattore altamente destabilizzante, non solo per il Sudan, ma direi in senso lato per l’intero Corno d’Africa.
Padre Albanese, invece sul fronte delle opposizioni civili, ci sono correnti fondamentaliste che potrebbero comunque minare poi un reale processo democratico?
R. – Assolutamente no. La società civile e le forze di opposizione chiedono il cambiamento, dunque chiedono la democrazia. Chiedono l’alternanza. Non ci sono spinte assolutamente estremiste, integraliste. Il segnale politico è stato certamente quello di una piazza sudanese ancora molto attiva, proprio mentre l’Unione Africana e il governo di Addis Abeba stanno cercando di far ripartire i negoziati tra il movimento di protesta, dunque la piazza, e la giunta militare. Negoziati naufragati il mese scorso proprio sulla questione della ripartizione del potere e sui tempi: la lunghezza del periodo di transizione, che dovrebbe condurre a libere elezioni. Si parlava di due o tre anni. Ora bisognerà vedere se la giunta militare sarà in grado di accogliere le richieste della piazza. La situazione al momento è ancora estremamente critica, dunque credo sia difficile fare previsioni. Molto dipenderà anche – diciamolo con chiarezza – dal ruolo della comunità internazionale e delle Nazioni Unite. La sensazione è che finora un po’ tutte le cancellerie – anche quelle occidentali – siano state alla finestra a guardare.
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