Sudan tra tensioni tribali e alluvioni. Padre Deng: spegnere il fuoco della guerra
Cecilia Seppia - Città del Vaticano
Due milioni di morti negli ultimi venti anni. Quattro milioni di uomini donne e bambini che hanno dovuto abbandonare le loro case e vagano per il Paese, in un territorio grande tre volte l’Italia. Fame, povertà e persecuzione delle minoranze etniche e religiose, sono piaghe ancora non completamente sanate in Sudan, nonostante gli sforzi e i traguardi raggiunti dalla fine della seconda guerra civile terminata con l'accordo di Naivasha, un trattato di pace firmato nel gennaio del 2005. Ma in questo contesto difficile, la Chiesa è viva e continua ostinata nella misericordia e nella carità a predicare il Vangelo, in mezzo ad una popolazione a maggioranza musulmana. Pochi giorni fa l’annuncio dell’insediamento del Consiglio Sovrano, composto da rappresentanti militari e civili, tra cui una cristiana copta e un’attivista dei diritti umani, deputato a traghettare il Paese fino alle elezioni democratiche del 2022, ha suscitato il plauso della Conferenza episcopale sudanese, convinta che questo organismo potrà contribuire non solo all’unità nazionale ma soprattutto a mettere fine ai sanguinosi e perduranti scontri tribali e a trovare anche soluzioni per rispondere alla profonda crisi economica aggravata dalle periodiche inondazioni che hanno distrutto raccolti, spazzato via villaggi e provocato lo sfollamento di 15 mila persone. Nel Sudan, stretto tra tensioni e alluvioni, le mani di tanti missionari di vari ordini e congregazioni, ma anche laici, continuano a tendersi quotidianamente verso un popolo sfiancato e sofferente, per portare sollievo. Ce lo racconta anche padre Paolino Tipo Deng, comboniano, di origini sudanesi.
R. - Per prima cosa, io credo che il nuovo Consiglio Supremo sarà davvero una cosa buona: credo infatti che cambierà la situazione al meglio. Infatti, la Chiesa in Sudan è stata una Chiesa perseguitata; anche per i missionari era molto difficile ottenere il visto d’ingresso nel Paese. Ancora oggi la popolazione della Chiesa cristiana sudanese è una popolazione povera, perché viene dalla parte dove c’è la guerra, dalle montagne Nuba, e altri sono rifugiati. E quindi, con questa situazione difficile di Chiesa perseguitata, adesso con questi cambiamenti io penso che sarà meglio, anche perché il governo ha promesso di tenere conto della rappresentatività delle genti.
Come si comporta, come vive, come opera e riesce ad agire la Chiesa in Sudan?
La Chiesa è una Chiesa che cerca ostinatamente di dare la sua testimonianza in mezzo a una popolazione a maggioranza musulmana, e questo è un po’ difficile, perché la Chiesa non ha le libertà che ha in altri luoghi …
C’è la possibilità di andare a Messa, o la possibilità di predicare il Vangelo? C’è questa libertà di culto?
R. – No, non del tutto. Per esempio, la domenica che è il giorno per la preghiera cristiana, non è facile per alcuni che lavorano, spesso le chiese sono vuote e non è facile nemmeno andare a predicare …
I cristiani che sono – come diceva lei – una minoranza, come vivono? Vivono nel terrore, hanno paura di uscire di casa, come succedeva fino a poco tempo fa oppure la situazione adesso è un po’ cambiata?
R. – No, adesso la situazione è cambiata, perché adesso il nuovo governo parla di uguaglianza e libertà religiosa, cosa che non faceva prima. Anche, le donne cristiane non potevano vestire nel loro modo abituale: dovevano coprirsi, come quelle musulmane ed erano oggetto di scherno, questo succede ancora alcune volte…
Lei, padre, è sudanese ma desso vive e opera in Sud Sudan. Che cosa fa un missionario in questi luoghi, che sono luoghi comunque feriti dalla guerra, dalla divisione, dalla povertà?
R. – Per prima cosa, nel contesto del Sudan, la Chiesa lavora di più nel campo dell’educazione, nel campo della salute, nel campo del sostegno ai poveri in modi diversi con centri di accoglienza. Ma i missionari cercano anche di incoraggiare i cristiani a vivere la loro fede, a non arrendersi, anche in questa situazione difficile.
La gente, di che cosa ha bisogno, concretamente?
R. – La gente, soprattutto nelle montagne di Nuba, sulle coste, dove ci sono rifugiati, dove ci sono le persone che vivono in zone di guerra, ha bisogno di tutto, ma in particolare di medicine, cibo, di aiuto. In altre zone ha bisogno che sia incoraggiata l’opera di educazione e di assistenza sanitaria.
Ci sono stati anche in passato molti appelli del Papa per il Sudan e per il Sud Sudan. Il Pontefice ha detto “basta guerre”… e poi c’è stato quel gesto definito da molti “sconvolgente” di quando Francesco ha baciato i piedi del presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, si è messo in ginocchio davanti a lui, che effetto ha avuto questo gesto anche in Sudan?
R. – Sì: il gesto di Papa Francesco è stato un gesto che ha colpito profondamente la gente del Sud Sudan ma anche del Sudan e nel mondo intero, perché è stato un appello ai leader di sforzarsi per fare, per comportarsi come Padri della Nazione, di cercare quello che è buono per la popolazione, cioè la pace, la riconciliazione … E a questo gesto del Papa ancora oggi le persone in Sud Sudan fanno riferimento; tutti coloro che lavorano nel Paese, nella Chiesa o fuori dalla Chiesa, anche quegli organismi che non sono necessariamente cristiani, cercano adesso di fare ogni cosa per arrivare a fare la pace in Sud Sudan, perché davvero la situazione è molto difficile. E quel gesto a noi missionari ha dato forza di credere nella riconciliazione, di lavorare per spegnere il fuoco della guerra in Sudan perché ci sono delle regioni che hanno sofferto tanto, tanto soprattutto nella regione di Nuba Mountain: i Nuba hanno sofferto tanto e continua a soffrire; come anche nella regione del Blue Nile (Nilo Azzurro) le persone soffrono tanto. Sì, davvero si deve spegnere la guerra e dare un’opportunità alle persone per vivere un po’ in tranquillità.
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