Don Voltaggio: dalla chiamata mi accompagna una gioia indescrivibile
Debora Donnini - Città del Vaticano
“Il Signore vuole preparare i suoi discepoli alla festa dell’irruzione del Regno di Dio, liberandoli da quell’ostacolo rovinoso, in definitiva una delle peggiori schiavitù: il vivere per sé stessi”. Queste parole di Papa Francesco pronunciate alla Messa ad Antananarivo, nel corso del suo recente viaggio apostolico in Madagascar, vogliono, in un certo senso, rimarcare la strada per vivere una vita piena: la strada è quella dell’uscita dal “proprio piccolo mondo” nel quale ci si può sentire apparentemente sicuri mentre alla fine si rischia di diventare risentiti e lamentosi. Parole che sembrano prendere corpo, poche ore dopo, nella vitalità che brilla negli occhi del missionario padre Pedro Opeka, che il Papa ha poi incontrato nel pomeriggio di quello stesso giorno alla Città dell’Amicizia di Akamasoa. Padre Opeka ha, infatti, generato lavoro e istruzione per tanti, donando la sua vita per amore. E la sua è una luce che emerge anche dal volto di tanti uomini e donne che vivono una vita lontano da sicurezze e successo mondano, eppure sono pieni di gioia e di speranza.
Ha 45 anni e viene da Roma don Francesco Giosuè Voltaggio, rettore del Seminario Redemptoris Mater di Galilea, che è del Patriarcato latino di Gerusalemme ed è aperto anche al rito greco-cattolico e maronita. Anche lui vive fuori dal suo Paese di origine spendendo la sua vita per gli altri. Gli abbiamo chiesto se abbia fatto e faccia questa esperienza di vita piena che sgorga proprio dal donarsi agli altri:
R. – Sicuramente, è un’esperienza di gioia, di liberazione, di felicità, perché non c’è felicità più grande che seguire Gesù Cristo e potere, un pochino, donare sé stessi agli altri: è esattamente quello che noi stiamo sperimentando in Terra Santa.
Cosa significa essere sacerdote e rettore di un Seminario in Terra Santa, con tutte le ricchezze e anche le problematiche?
R. – Sicuramente è una grandissima ricchezza e una sfida, perché in Terra Santa dove siamo noi, in un seminario in Israele - oltre al diocesano che c’è in Palestina, il seminario patriarcale di Beit-Jalla - significa essere fondamentalmente un ponte: innanzitutto con il mondo arabo, perché viviamo a contatto costante con i cristiani arabi, però essere un ponte anche con i fratelli delle altre religioni, i nostri fratelli ebrei, con i musulmani. E poi vivere tutta la ricchezza delle liturgie orientali: poter servire questa minoranza cristiana che ha questa missione essenziale di essere ponte e di testimonianza, di essere una luce collocata sul monte, davanti a tutta questa realtà molto variegata e anche davanti a queste ferite che sono sotto i nostri occhi.
Lei oltre 25 anni fa è entrato in Seminario, poi – dopo alcuni anni – si è recato in Terra Santa come missionario. Ecco, ci può raccontare qualcosa di questa parabola della sua vocazione: da ragazzo di una famiglia benestante di Roma a missionario in Terra Santa …
R. – Esattamente quello che ha detto Papa Francesco in Madagascar: la mia storia è la storia di un ragazzo normale che aveva tutto, che però a un certo punto si è reso conto che fondamentalmente viveva per sé stesso, anche facendo cose buone, avendo relazioni buone, però anche facendo ovviamente tanti errori, perché vivere per sé stessi significa volersi gratificare con tante cose della vita o del mondo, che poi non danno la pienezza. E questo mi ha spinto a dare la mia disponibilità ad entrare in un Seminario e poi ad andare in missione, grazie a una Giornata Mondiale della Gioventù con San Giovanni Paolo II a Denver, dove ho sentito una forte chiamata che per me è coincisa non solo con una chiamata al sacerdozio, ma anche a una chiamata a essere veramente cristiano. E io da quel momento ho sperimentato una gioia incredibile, indescrivibile, una felicità che mi accompagna fino ad oggi.
Vivendo in Terra Santa, a contatto con le “orme” di Gesù, c’è un posto che l’ha colpita e aiutata in modo particolare?
R. – Sono due, i posti: sono la Basilica del Getsemani, dove c’è la roccia dell’agonia, dove Cristo ha sofferto, e poi certamente il primato di Pietro, sul lago di Galilea, la roccia davanti alla quale Gesù Cristo ha chiesto a Pietro il suo amore, non bastonandolo o rimproverandolo per la sua infedeltà ma, al contrario, chiedendogli: “Mi vuoi bene, tu? Mi ami?”. E se qualcuno ti chiede “mi ami, mi vuoi bene”, già praticamente ti ama, ti ha perdonato. Quindi, diciamo che questa roccia del primato di Pietro è la roccia su cui Cristo ha fondato la Chiesa che è la misericordia e la sua fedeltà verso Pietro.
Come missionari, sia nel campo sociale, sia nel campo dell’evangelizzazione, infondere speranza e aiutare le persone a scoprire la dignità di figli di Dio, mi sembra davvero siano frutti che nascono dalla semina del Vangelo…
R. – Una chiave fondamentale è capire che l’annuncio della fede è veramente un lavoro che ha delle risonanze sociali immense, e noi abbiamo visto tutto questo nella ricostruzione della famiglia, nel grande aiuto ai giovani, nel riscoprire – come dicevo – l’identità cristiana che non è un ostacolo alla pace, ma tutto il contrario … Quando uno è riconciliato con Dio, con la sua storia, con gli altri, allora può essere veramente testimone di riconciliazione e di pace, anche nel campo sociale.
Quale pensa sia il messaggio più importante per i giovani in Terra Santa?
R. – Come ha detto Papa Francesco, i giovani non sono il futuro della Chiesa, sono il presente. E il problema che abbiamo lì, in Terra Santa, è che i giovani hanno la grande tentazione di emigrare a causa dei conflitti, delle ferite di tipo sociale e di tipo politico. Quindi, il messaggio fondamentale per i giovani è ancora riscoprire la fede, perché noi abbiamo visto che dove i giovani si incontrano profondamente con Gesù Cristo e appunto riescono, con la grazia di Dio, ad andare al cuore del Vangelo, alle Beatitudini, incominciano a non volere più andare via, a non volere scappare, perché la loro presenza è fondamentale: la presenza dei cristiani in Terra Santa è apprezzata da tutti, sia dagli ebrei sia dai musulmani. E i cristiani non possono rinunciare a questa grande missione di essere un ponte e, come dice Gesù Cristo nel Sermone della Montagna, ad essere il sale della terra e di conseguenza anche il sale della Terra Santa.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui