Un francescano nella guerra
Silvonei Protz
A guardare le televisioni, ascoltare la radio o leggere i giornali, sembra che la guerra sia finita in Siria. I media non ne parlano più, o quasi. Questo rimpiange padre Firas Lutfi, francescano di Terra Santa, ma soprattutto siriano in Siria. Ci tiene molto, perché nel suo paese è rimasto per tutti gli anni della guerra. “E’ vero che in alcune zone sono cessati i combattimenti - dice - però dobbiamo tenere conto di una realtà: la guerra è durata nove anni. C’è stata una massiccia distruzione, case demolite, quartieri interamente in rovina, chiese che necessitano di un intervento per la ricostruzione... Metà della popolazione, parliamo di 23 milioni prima della guerra, non c’è più, tra morti, profughi e sfollati”.
Così padre Firas descrive l’attuale situazione del suo paese, dove la vita è molto difficile. Demografia e economia in ginocchio. I giovani sono andati via. Bambini e donne, che siano quelli rimasti o quelli che oggi vivono nei campi profughi, soffrono di profondi traumi psicologici. Le sanzioni economiche, l’embargo “che l’Occidente purtroppo continua a rinnovare contro la Siria, pensando di colpire i responsabili della guerra” colpiscono in realtà la gente normale, gli innocenti, i bambini e i più poveri. Quindi attualmente è una lotta per la sopravvivenza, contro la povertà. Padre Firas vede intorno a sé una grande desolazione anche se gran parte del territorio è stato liberato dai jihadisti “venuti da tutte le parti del mondo, da più di 60 nazioni”. Gli ultimi fondamentalisti si sono raggruppati nella zona di idlib, l’ultima roccaforte. “Sono stranieri indesiderati nei loro Paesi di origine che non vogliono più farli rientrare”. L’analisi del francescano gela: “La guerra in Siria purtroppo è diventata oggetto di troppi interessi internazionali. Non è più una lotta contro un regime, non è più una lotta per una democrazia, per la libertà di parola, di coscienza, ma è una guerra internazionale che vede coinvolti i russi, gli americani, gli europei e anche l’Iran, la Turchia e i Paesi del Golfo, ciascuno con i suoi alleati”. Questa guerra, padre Firas, la chiama anche “tsunami”, perché ha spazzolato tutto. “La Siria continua ancora a sanguinare”, dichiara con gli occhi lucidi. Aspetta la salvezza, ovvero, l’intervento di persone sagge che si mettono a programmare la pace. Recentemente, un giovane gli diceva di non più avere la forza per combattere, per lottare. Che non viveva, ma sopravviveva senza nemmeno osare alzare lo sguardo verso l’orizzonte.
Alla ricerca di soluzioni
Come chiesa, come francescano, Padre Firas non si è mai rassegnato. Certo, in alcuni momenti sembrava che tutto crollasse e che non ci fosse nulla da fare. Ma non può un cuore francescano, abbandonare. Allora si è messo a cercare possibili soluzioni. “Come fare par aiutare la mia gente?” si è chiesto tante volte. Già faceva tanto la comunità francescana mondiale. Grazie alla solidarietà, grazie anche a tanti benefattori, si sono potuto distribuire pacchi alimentari e dell’acqua potabile, perché in guerra spesso, è la prima cosa che viene crudelmente a mancare. Ma sono anche stati distribuiti soldi per finanziare micro progetti, per aiutare giovani sposini a fare i primi passi e costruire una famiglia. “Questi progetti sono testimonianze che il Signore dà e continua a dare”.
Accanto a questo dramma, a questa tragedia, padre Firas ha toccato con mano la presenza di Dio in maniera magnifica, e la Chiesa è stata sempre accanto al popolo sofferente. Alcuni pastori, sotto la pressione continua della guerra hanno dovuto andarsene, però, la maggioranza, i vescovi, sacerdoti e tanti ordini religiosi hanno deciso di restare in Siria. E cita come esempio due dei suoi compagni francescani che oggi vivono nel nord, nella zona vicina al confine con la Turchia, a pochi passi da Antiochia, la famosa e storica Antiochia: “Loro vivono sotto il controllo non del regime di Assad ma dei jihadisti. E cosa fanno lì? Stanno a custodire il piccolo gregge dei cristiani rimasti”. Con i due religiosi, ci sono circa 200 cristiani che portano non solo nel loro DNA il cristianesimo, ma che anche sopportano le sofferenze per portare avanti una presenza concreta, storica, di tutto il patrimonio cristiano di 2000 anni ad Antiochia dove, per la prima volta, i cristiani hanno preso il nome dignitoso di “seguaci di Cristo”.
Oggi ancora, nonostante le mille difficoltà, stanno lì, accanto a questi due frati francescani della Custodia di Terra Santa, per continuare a testimoniare l’amore di Cristo, tenero, misericordioso, pietoso verso questo piccolo gregge.
Rivedere un sorriso sul viso dei bambini
Sono in corso due progetti per i bambini della Siria. Uno, nella città di Aleppo, dove padre Firas ha vissuto durante la guerra. Il progetto si chiama «arte terapeutica». Dietro questa denominazione c’è una intera squadra di persone e specialisti che fa il possibile per aiutare i bambini a riprendersi dal quel trauma psicologico che li ha toccati profondamente. Così ne parla il francescano: «Si tratta di un grande centro dove c’è la musica, lo sport, il nuot. Abbiamo provveduto a una bella piscina perché durante la guerra non potevano giocare, uscire di casa, studiare, per la paura di essere uccisi».
Nel corso dell’estate in mille hanno frequentato il centro: il personale e gli psicologi hanno cercato di aiutare questi bambini a trovare un senso profondo per la loro vita e la loro esistenza.
Esiste anche un altro progetto molto interessante. «Ad Aleppo est vivono e vivevano solo musulmani.» Inizia così la descrizione di padre Firas. «Durante la guerra la loro terra è stata occupata dai jihadisti, quindi li hanno maltrattati, le donne sono state violentate, i bambini massacrati... I bambini hanno visto tutte le scene drammatiche delle gole tagliate e dei maltrattamenti ad opera dei fanatici». Successivamente, racconta dei matrimoni più o meno forzati di jihadisti con donne siriane e dei bambini nati da queste unioni, la cui esistenza non è ufficiale. Non esiste una registrazione all’anagrafe. Sono lì, fisicamente in vita, ma giuridicamente inesistenti. Quando, nel 2017 i jihadisti hanno lasciato Aleppo, la situazione trovata da padre Firas era terrificante: «Bambini di 4 o 5 anni che vivono con la mamma o a volte con la nonna perché i genitori non ci sono più. Alcuni sono abbandonati a loro stessi e alla sorte. Non hanno mai frequentato la scuola. Per non parlare del dramma psicologico e dell’accumulo di paure, di terrore, che hanno subito durante i combattimenti».
Sono stati creati due centri che ospitano ciascuno 500 bambini e bambine dai 3,4 anni fino a 16 anni. Ed è stato esteso il programma che già era in atto nel suo convento, il collegio Terre Sainte ad Aleppo. Il sacerdote francescano tiene a sottolineare che i due centri nascono da un’amicizia con il mondo musulmano: «Il mufti di Aleppo è un nostro carissimo amico – spiega - e con il vescovo vicario apostolico della comunità latina della Siria, è nata una grande amicizia prima e, soprattutto, durante la guerra. Quindi un primo frutto è stato una stretta collaborazione per salvare l’innocenza di questi bambini».
Questo progetto, questa collaborazione con i musulmani, ha un forte significato per padre Firas. Dimostra la possibilità di dare un senso alla vita, un senso profondo, un senso all’esistenza e dimostra che non è mai troppo tardi per agire e fare del bene. E aggiunge: «Il dialogo non si fa solo intorno a un tavolo ma si fa lavorando insieme, mano nella mano, cuore a cuore. E lì nasce la vera ricostruzione della Siria che verrà nel tempo. Può darsi che ci vogliano 30, 50 anni, ma la vera ricostruzione non nasce dai mattoni ma dalla ricostruzione dell’uomo, dell’umano dentro di noi».
La Siria come missione
Quando si chiede a padre Firas perché è rimasto in Siria, risponde in questo modo: «Perché sì, perché sono francescano, credente e quando il Signore mi ha creato lì, è stato per una missione, per essere il Suo volto, le Sue braccia, le Sue gambe che portano l’annuncio, la tenerezza e la misericordia di Dio».
E’ stato «chiamato», padre Firas, chiamato da Dio per vivere la realtà, anche drammatica, della «sua» Siria. Il suo «sì» all’esistenza è un «sì» motivato e convinto che lo sostiene nel superamento delle difficoltà. In Siria, ogni giorno si soffre e si muore. E così conclude: «E’ esattamente come il chicco di grano: se non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto, come dice Gesù nel Vangelo».
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