Un bambino su 4 vive in Paesi colpiti da conflitti o disastri
Roberta Gisotti – Città del Vaticano
59 milioni di bambini nel 2020 avranno bisogno di aiuti per salvare la propria vita in 64 Paesi. E’ la spaventosa realtà prospettata dall’Unicef, che lancia un appello alla solidarietà per raccogliere 4,2 miliardi di dollari, necessari a fronteggiare le emergenze già configurabili per il prossimo anno 2020. I conflitti restano la cause principali di rischio, oltre a fame, malattie infettive ed eventi metereologici estremi legati al cambiamento climatico, come spiega Paolo Rozera, direttore generale dell’Unicef in Italia.
Cosa sta accedendo nel mondo se tanti Paesi non riescono a proteggere la propria infanzia?
R. – Sta accadendo che gli adulti in modo particolare continuano a fare guerre, a creare situazioni che mettono a rischio i bambini in molte parti del mondo, tant’è che i Paesi che richiedono maggiore intervento sono quelli dove la guerra o le malattie endemiche la fanno da padroni; mi riferisco per i conflitti alla Siria, allo Yemen, al Sud Sudan e per quanto riguarda malattie e anche conflitti locali alla Repubblica Democratica del Congo.
Rispetto a quest’anno, di quanti finanziamenti avrà bisogno l’Unicef che agisce, ricordiamo, per conto delle Nazioni Unite e raccoglie i fondi dagli Stati ma anche da privati?
Sì, molto dai privati e soprattutto ci tengo a sottolineare che sono fondi volontari, quindi sono dei soldi che vengono dati come libera scelta da parte degli Stati e dei privati. Per il 2020 abbiamo fatto una richiesta maggiore di 3.5 volte rispetto a quella fatta, per esempio, nel 2010. Quindi sono passati 10 anni ma in realtà i problemi sembrano aumentare; non riusciamo a sopperire a tutte le esigenze dei bambini nel mondo. Parliamo di malnutrizione acuta, di malattie tipo il morbillo che consideriamo sconfitte, ma che in situazione di difficoltà riaffiorano, di accesso all’acqua potabile ed anche di supporto psicosociale per la salute mentale, in conseguenza di azioni di cui gli adulti sono sempre i maggiori responsabili e di cui i bambini soffrono.
L’Unicef chiede di aumentare i fondi flessibili. Cosa vuol dire?
R. – Sono quei fondi che non vengono dati per uno specifico, dettagliatissimo progetto, ma fondi che poi l’Unicef in base all’esigenza di quel momento – se c’è un attacco in un villaggio in Sud Sudan oppure se c’è un flusso migratorio improvviso dove ci sono molti bambini – può destinare immediatamente laddove c’è la necessità più urgente e più grave per la sopravvivenza dei bambini.
Ci si chiede se tanti soldi spesi a livello planetario per fronteggiare le emergenze non potrebbero essere - come dire - risparmiati se fossero investiti prima in interventi di prevenzione delle crisi di vario tipo, che mettono a rischio la vita stessa delle persone, quindi evitando tante sofferenza?
R. - L’Unicef fa anche progetti strategici per evitare che certe situazioni vengano a crearsi. Il problema è quando accadono fatti imprevisti come le guerre che ci fanno tornare indietro di anni rispetto ai risultati raggiunti in Paesi particolarmente difficili. Pensiamo solo alla questione dell’immigrazione. Ad esempio la crisi che sta attraversando il Venezuela sta coinvolgendo quasi 2 milioni di bambini in tutta l’area, che comprende gli altri Stati vicini a questo Paese. Due milioni di bambini che avranno bisogno di assistenza nel 2020. Quindi per questo i bisogni si moltiplicano a livello esponenziale, quando ci sono situazioni di depressione dovute appunto a guerre o a disastri naturali o epidemie.
Mi riferivo ad interventi della comunità internazionale per prevenire delle crisi politiche che sfociano in conflitti o anche di povertà estrema.
R. – Questa azione è fondamentale. L’Unicef in quanto agenzia delle Nazioni Unite è presente in tutti i consessi nazionali e queste realtà le fa sempre ben presenti. Purtroppo, non sempre l’interesse del minore, del bambino prevale su interessi di parte sia a livello politico che di poteri economici, che alla fine vanno a determinare i conflitti armati.
Possiamo dire che la condizione dell’infanzia è un po’ la carina tornasole di come sta andando il mondo?
R. - Sì. Il grande Nelson Mandela diceva che la cultura di un Paese si misura nel modo in cui tratta i propri bambini e questo ci deve far riflettere su come li stiamo trattando oggi nel mondo.
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