Con Dio ho riconquistato la libertà e mio figlio
Felipe Herrera-Espaliat – Vatican News
"Se non fossi finita in prigione, non sarei mai stata in grado di studiare". La frase di Janeth Zurita è paradossale, perché in Cile l’espiazione di una pena detentiva tende ad acuire l'esclusione sociale piuttosto che facilitare il reinserimento di coloro che hanno violato la legge. Tuttavia, non è il caso di questa donna di 37 anni che è stata in prigione per quasi un decennio, ma che da tre anni si sta preparando per una carriera professionale in Estetica e Bellezza. Contro ogni pronostico e tendenza, sta rompendo il cerchio dell'ingiustizia, della povertà e della delinquenza, attraverso lo sforzo personale e, secondo la sua stessa testimonianza, con il chiaro intervento di Dio.
Anche se quasi la metà delle donne che scontano una condanna in Cile ricade in prigione per mancanza di opportunità che le costringono a reiterare il crimine, la "Zurita" – come la chiamano tutti – resta salda sulla strada della riabilitazione. La durezza della sua vita, segnata dalla precarietà materiale e dall'ambiente sociale, non permette che l'amarezza le si radichi nel cuore; al contrario, è una persona che trasmette una potente energia vitale, che si propaga ogni volta che condivide la sua testimonianza nell’andare oltre, sempre segnata dalla fede e dell'ottimismo. Questo è stato evidente per il Santo Padre e per le migliaia di persone che hanno seguito la prima storica visita di Papa Francesco in un carcere femminile. Martedì 16 gennaio 2018, Janeth pronuncia un discorso davanti al successore di Pietro, in rappresentanza di tutte le sue compagne di prigionia.
Da quel momento, niente ha fermato la Zurita. Oggi è pronta a lasciare definitivamente il carcere a testa alta, con un titolo professionale sottobraccio e dopo aver sanato il rapporto con il figlio, che ha dovuto lasciare quando è caduta vittima del traffico di droga.
Ferita dalla culla
Janeth è solo una bambina quando suo padre viene imprigionato nei primi anni '80 dopo aver commesso una rapina. "Andavo a trovarlo spesso in prigione, da che conosco questo posto", dice la giovane donna, nata in uno dei settori più poveri della capitale cilena. La più grande di quattro fratelli cresce sotto le cure dei nonni, mentre sua madre provvede alla famiglia lavorando come venditrice ambulante nel centro di Santiago. È un impiego tanto instabile quanto rischioso, perché, essendo illegale, deve sottrarsi costantemente ai controlli di polizia e quando le accade di essere fermata, viene arrestata e la sua merce confiscata. Questo succede in molte occasioni, come in quel triste Capodanno che Janeth ricorda con particolare dolore, quando sua madre non torna a casa ad abbracciarla perché agli arresti.
Nonostante le avversità, Janeth riesce a completare la sua istruzione, mentre suo padre finisce di scontare una condanna a 18 anni. Naturalmente, dopo la scuola non ci sono più orizzonti per lei. "Come avremmo potuto avere successo se non c'erano soldi per pagare la scuola?", spiega, aggiungendo che ancora oggi questo è il destino più comune per migliaia di giovani cileni scartati e senza possibilità di migliorare la propria condizione. Tuttavia, il ritorno a casa di suo padre porta un po’ di aiuto finanziario e di sollievo, anche se solo per un breve periodo di tempo. Quando Janeth ha 22 anni, suo padre viene assassinato e, oltre al dolore, la famiglia deve affrontare una nuova fase di estrema precarietà.
"Volevo che i miei fratelli più piccoli non avessero necessità, che avessero tutto, che potessero andare all'università, che avessero una carriera", dice Janeth raccontando l'itinerario che l'ha portata a entrare in contatto con il mondo criminale. Sa che le sue buone intenzioni non giustificano la strada sbagliata che ha preso: il traffico di droga. Questo crimine, sottolinea, è la causa più comune per cui le donne cilene sono condannate al carcere. "Naturalmente è una pessima via d'uscita dalla povertà, perché purtroppo si pensa di farcela e ci si sbaglia! Io ho sbagliato", ammette senza sfumature.
La Zurita non ha mai spacciato droga per strada, quindi non ha avuto contatti con gli acquirenti e ancor meno con i consumatori. Piuttosto, coordinava una rete di distributori, attività che ha svolto per cinque anni, finché nel giugno 2010 viene arrestata e condannata a 15 anni di carcere. Inizia così il periodo più difficile e più oscuro della sua vita, ma anche quello che le presenta sfide che possono cambiare il suo destino.
Lei ha 27 anni e suo figlio non ne ha compiuti ancora due. La separazione dal bambino, anche se sarebbe dovuto rimanere con lei, sono il dolore e l'angoscia più grandi che porta con sé nella cella del penitenziario femminile di Santiago. È un colpo straziante che le fa capire quello che anni dopo avrebbe detto al Papa, e cioè che "i bambini sono quelli che soffrono di più quando sono strappati dalla madre, quando non c'è più la donna che veglia su di loro, quella che si prende cura dei loro sogni, quella che dà loro l'amore e le cure di cui hanno bisogno. Perché niente e nessuno sostituisce una madre”.
Dalla coscienza del danno alla conversione
Janeth confessa che i suoi primi tre anni di carcere trascorrono in modo molto passivo. Non accettava di svolgere nemmeno i lavori a pagamento offerti all'interno della struttura. Le basta l'aiuto finanziario che riceve dall'esterno e con cui paga le altre detenute perché puliscano la sua cella. Non vuole fare nemmeno quello.
In tal modo, Janeth riesce a fuggire dal lavoro, ma non dalla dura realtà delle persone che condividono con lei i noiosi giorni di detenzione. Solo una volta dietro le sbarre, conosce in prima persona le storie, i volti e il dolore delle vittime della tossicodipendenza. Molte delle sue oltre 600 compagne detenute sono in grado di ottenere sostanze che continuano a consumare a qualsiasi prezzo. Fino a quel momento, non si era resa conto del deterioramento fisico, psicologico e umano di coloro che erano stati i suoi ultimi clienti nel mondo del traffico di droga.
"Ho visto come erano state distrutte dalla droga, mentre trascorrevano notti insonni, giorni senza cibo, perdendo peso. In quel momento ho fatto il 'click' e ho visto come si causa un sacco di danni vendendo droga e mi sono detta che non potevo andare avanti così. La paura che mio figlio sarebbe potuto cadere nella droga, penso sia stato ciò che mi ha fatto atterrare, mettere i piedi per terra", confessa mestamente.
Janeth fa sua l’abitudine di accompagnare le donne che patiscono gli effetti della droga all'interno della prigione. Gli capita di doverle contenere quando, per l’ansia scatenata dalla crisi di astinenza, si fanno male con i coltelli o cercano di impiccarsi. Il suo è un modo di riparare i danni commessi, di avere compassione della sofferenza di coloro che condividono con lei la stessa sorte ed è per questo che sottolinea come, in quei momenti, abbia cercato “sempre di affiancarle, di sostenerle, affinché non si tagliassero a vicenda, affinché non facessero questo genere di cose, e consigliandole sempre per il futuro, per il bene, e spiegando loro che quello non era giusto, che quella non era la vita".
L'ambiente e le dinamiche di desolazione permanente fanno sentire sempre più vuota Zurita, al punto da chiedersi perché Dio si sia arrabbiato con lei, punendola in questo modo. Cerca di trovare delle risposte condividendo il suo stato d’animo con le comunità cristiane evangeliche che visitano il carcere, poiché si tratta della stessa religione che si professava in casa sua, ma non trova ciò che cerca. Solo quando una delle sue amiche la invita a partecipare alla Messa domenicale, ha un incontro personale e significativo con il Signore mentre ascolta la Parola.
"In quella Messa non potevo smettere di piangere, anche se non mi è mai piaciuto farmi vedere in lacrime dagli altri, perché in prigione si mette sempre su una corazza per farsi vedere forti. Tuttavia, ho pianto, mi sono sfogata e ho sentito Dio dentro di me. E così ho cominciato ad andare a Messa ogni domenica", dice Janeth, che indica anche Nelly Leon come una delle principali responsabili di questa rinnovata esperienza di fede.
Suor Nelly, o "Madre" come la chiama Janeth, è una religiosa della Congregazione del Buon Pastore che ha consacrato la sua vita ad aprire orizzonti alle donne che sono in prigione e a quelle che hanno bisogno di essere reinserite nella società dopo aver scontato la loro pena. È Suor Nelly a dare a Zurita il primo lavoro retribuito all'interno del carcere: la pulizia della cappella, un'area per più di 250 persone che doveva risultare impeccabile per i servizi liturgici e gli incontri comunitari.
Il suo lavoro scrupoloso le vale non solo la fiducia e l'affetto della suora, ma anche la sua amicizia e una sana complicità. "Abbiamo creato un legame molto bello. Mi ha sempre sostenuta quando stavo attraversando periodi di tristezza", spiega con emozione Janeth quando parla di questa autentica madre che lei e decine di detenute hanno avuto durante la privazione della libertà. Questa è la stessa religiosa che ha denunciato davanti a Papa Francesco che "in Cile la povertà è imprigionata", condensando in una frase già famosa le storie di migliaia di persone che sono finite in carcere, semplicemente perché la loro vita - ferita dall'esclusione sociale - non ha lasciato loro un'altra strada.
"Donna, alzati"
Il suo buon comportamento, i suoi evidenti progressi nelle responsabilità e il suo spirito di automiglioramento, tre anni fa hanno portato Janeth a ottenere il beneficio di un sistema di confinamento semiaperto. Così è giunta in un centro chiamato “Talita Kum”, dove vive con altre 50 donne che, come lei, lavorano e preparano a reintegrarsi a medio termine nella vita sociale. Questo regime penitenziario permette di uscire tutti i giorni e persino di passare qualche notte nelle case delle rispettive famiglie.
Da allora, Zurita ha unito il suo lavoro di addetta alle pulizie in un'industria ai suoi studi in un prestigioso centro di formazione professionale. Lì, spera di laurearsi entro il 2020 come esperta in estetica e bellezza. Titolo che la qualifica, tra l’altro, in cosmetologia, manicure, massoterapia e come parrucchiera. "Sento che Dio ha pianificato tutto con i miei studi. Ha messo tutti gli angeli sulla mia strada e ha aperto le porte", dice Janeth quando conta gli sforzi che ha dovuto fare per riuscire a ottenere i costosi materiali per i suoi studi professionali.
Le spese dell’istituto sono state in gran parte finanziate grazie al sostegno della Fondazione "Mujer, levántate" (“Donna, alzati”), un'opera sociale creata da Suor Nelly per accompagnare coloro che ritrovano la libertà nel loro reinserimento sociale. La suora si è lanciata in questa missione quando ha visto che quasi il 50% delle donne uscite dopo aver scontato la pena, sono ricadute nel crimine e hanno dovuto tornare in prigione. Questo numero è sceso drasticamente al 9% tra coloro che hanno ricevuto dalla Fondazione un ampio sostegno sociale, psicologico, spirituale ed economico.
Faccia a faccia con il Papa
È stato quasi unanime il desiderio delle donne del Centro penitenziario femminile di Santiago di essere rappresentate da Janeth Zurita durante la visita del Santo Padre. Lei, la cui vita è testimonianza di conversione e di superamento, ha avuto la capacità di trasmettere a Papa Francesco quale sia il dramma dello scontare una condanna, soprattutto per le donne che hanno figli piccoli.
“Chiediamo perdono a coloro che sono stati feriti dal nostro crimine", ha detto con forza Janeth davanti al Pontefice, che l'ha ascoltata con attenzione. “Sappiamo che Dio ci perdona, ma chiediamo perdono anche alla società. Chiediamo perdono”. Le sue parole risuonano con forza e trovano addirittura eco nelle autorità cilene che, pochi giorni dopo la visita del Papa, concedono la libertà a quelle donne che hanno già scontato metà della pena e che hanno figli di età inferiore ai tre anni.
Papa Francesco ha abbracciato di cuore Janeth dopo il suo discorso. Un abbraccio che ha incluso anche le altre 400 donne presenti, "private della libertà, ma non della dignità", come ha sottolineato lo stesso Pontefice. "Per me personalmente è stato un impatto sul cuore, sull'anima. Si è inciso in me il fatto di aver avuto il Papa al mio fianco, di averlo abbracciato, di averlo sentito e di aver ascoltato le sue parole, quello che mi ha detto. È stato un grande impatto anche per la mia famiglia", dice Janeth.
Da allora, ha continuato il suo percorso di guarigione personale con crescente audacia, perché è consapevole di dover fare ammenda per il danno che ha causato. Per questo, ad esempio, offre in molte occasioni testimonianze per prevenire sia il consumo che il traffico di droga. Inoltre, si dedica responsabilmente ai suoi studi e al suo lavoro. Ma, soprattutto, approfitta di ogni momento per recuperare il tempo che ha trascorso lontana da suo figlio e per rafforzare il rapporto con lui, che ha appena compiuto 12 anni e che vede ogni domenica perché ha già ottenuto il beneficio dell’uscita domenicale. Janeth dice che quando lui è stato in grado di capire, gli ha spiegato gli errori che aveva commesso e per cui stava pagando le conseguenze. Ma gli ha anche detto che l'amore per lui è la sua principale motivazione a perseverare, e che lei fa di tutto per impedirgli di smarrirsi.
Quest'anno Zurita potrebbe ottenere il beneficio della libertà vigilata, cioè, uscire di prigione cinque anni prima del previsto. Ovviamente è qualcosa che spera, ma aspetta pazientemente, sicura di ricevere l'aiuto divino. "Dio ha fatto tutto perché vuole che io cambi, vuole che io sia qualcun’altra, per questo dico che sono Janeth 'Benedetta', perché Dio mi dà tutte queste benedizioni. Sono messaggi che Dio mi ha mandato per dimostrarmi che questa è la mia strada. Sento che Dio mi sta preparando per qualcosa di buono, per qualcosa di meglio", conclude con una voce che trasmette profonda gratitudine e grande speranza.
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