Giorno del ricordo delle foibe: il dolore e la speranza
Gabriella Ceraso - Città del Vaticano
Ogni anno, a partire dal 2004 per decisione del Parlamento, l’Italia celebra il 10 febbraio il Giorno del ricordo, dedicato alla commemorazione di migliaia di vittime che tra il 1943 e il 1947 vennero catturate, uccise e gettate nelle cavità carsiche dell'Istria e della Dalmazia, le cosiddette foibe, dai partigiani jugoslavi di Tito e a quanti, istriani, fiumani e dalmati in quel tragico secondo dopoguerra, furono costretti a lasciare le loro terre. Si tratta di una complessa e dolorosa vicenda della storia italiana del Novecento a lungo trascurata che permette di non dimenticare tutte le cosiddette "pulizie etniche" e di ribadire il valore della pace.
La storia
L'orrore del Novecento, provocato da una pianificata volontà di epurazione su base etnica e nazionalistica e coperto da una ingiustificabile cortina di silenzio ebbe iniziò nel 1943, dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre. In Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti e la loro italianizzazione forzata, vennero considerati nemici del popolo, e insieme agli italiani non comunisti, torturati e gettati nelle foibe, e così fu in seguito, durante tutto il tentativo di riconquista del territorio italiano fino a Trieste. Il risultato è che tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra, altri furono uccisi o deportati nei campi sloveni e croati. Si moriva con estrema crudeltà: nelle foibe i condannati venivano legati tra loro con un fil di ferro stretto ai polsi e fucilati in modo che si trascinassero nelle cavità gli uni con gli altri.
L'orrore e la speranza dopo una "sciagura nazionale"
Il silenzio, le sacche di "deprecabile negazionismo militante" o il riduzionismo, sono gli ostacoli contro cui ancora si combatte per questa "sciagura nazionale": lo scrive il capo dello Stato italiano Sergio Mattarella in occasione dell'odierna Giornata, aggiungendo però che il vero avversario da battere, "più forte e più insidioso, è quello dell'indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi". Il capo dello Stato sottolinea anche che angosce e sofferenze sono un monito perenne "contro le ideologie e i regimi totalitari che negano i diritti fondamentali della persona "e rafforzano ciscuno nei propositi di difesa e promozione di pace e giustizia".
Il vescovo di Trieste: il ruolo di riconciliazione della Chiesa
Sulla stessa linea monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste che, nella nostra intervista, chiede di non dimenticare che "se si costruisce un mondo su odio e violenza non si va da nessuna parte". I valori della verità, giustizia e libertà sono quelli portanti e certe ideologie - afferma- hanno un effetto distruttivo sulle coscienze e sulla convivenza umana. Ma è anche vero che esistono oggi volontà e iniziative volte a ricostruire gli strappi e a risanare il tessuto sociale di quelle terre. Ruota intorno alle parole "riconciliazione" e "purificazione della memoria", l'attività della Chiesa di quegli anni e di oggi, al confine nord orientale dell'Italia. Lo fa notare ancora il vescovo di Trieste convinto che molti passi siano stati compiuti e che ci debba essere fiducia: "dobbiamo concordemente continuare ad evangelizzare la riconciliazione e aprire, a partire da questo grande valore cristiano, una stagione di speranza e di futuro".
R. - Per me come vescovo questo giorno è un impegno straordinario. Prima di tutto è un impegno di preghiera per le tante vittime delle foibe e soprattutto è un riconsiderare quegli eventi alla luce e con riferimento a Dio. Ma ci sono anche altri aspetti legati a questa giornata. C'è prima di tutto un aspetto legato ad una responsabilità morale nei confronti dei giovani, che devono ricordare quegli eventi per fare in modo che non accadano più e anche per dire che, se si costruisce un mondo sull'odio e sulla violenza, non si va da nessuna parte. C'è anche poi un altro aspetto che va considerato ed è l'effetto distruttivo che l'adozione di certe ideologie ha sulla convivenza umana. Evidentemente questo giorno del ricordo ci proietta nella prospettiva di affermare, nell'ambito dell'attualità, tutta una serie di valori che devono essere garantiti. Prima di tutto i valori della comprensione reciproca e del rispetto: quando non si rispetta la verità, la giustizia, l'amore e la libertà, allora capitano anche queste tragedie.
Quale fu il ruolo della Chiesa nel contesto di quella tragedia?
R. - La Chiesa giocò un ruolo di pacificazione e riconciliazione e pagò anche un tributo molto alto e non solo la diocesi di Trieste, ma anche diocesi croate e diocesi slovene. Voglio qui ricordare soprattutto tre figure di martiri che sono poi stati beatificati. Il primo beato che vorrei ricordare è Lojze Grozde, sloveno, poi Don Miroslav Bulesic, croato e il prete triestino don Francesco Bonifacio. Con la loro testimonianza di fede, una fede viva e vissuta, bonificarono, secondo me, gli orrori commessi in queste terre sotto la spinta di un'ideologia che, devo dire, prometteva il Paradiso e partorì l'Inferno. Questo mi sembra la sintesi di ciò che è stato, deve essere e deve continuare ad essere, il ruolo della Chiesa, un ruolo di riconciliazione, di purificazione della memoria e di evangelizzazione di quei valori portanti, che permettono la convivenza sana di popoli diversi.
La storia di un sacerdote martire
Mai smettere di apprendere dalla storia. Nella pagina tragica delle foibe sono scritti i nomi di tanti religiosi di Trieste, della Croazia e della Slovenia che, in quanto pastori, sono stati individuati e eliminati perchè ostacolo alla propaganda. Nei loro esempi di martiri, l'esperienza del perdono e soprattutto - dice monsignor Crepaldi - una testimonianza di fede viva che ha "bonificato gli orrori commessi in queste terre sotto la spinta di una ideologia che prometteva il paradiso e partorì l'inferno".
E' il caso di un sacerdote, Assistente dell'Azione cattolica, "seguace di Gesù fino al martirio", che ha compiuto la sua vicenda nell'Istria del periodo bellico e immediatamente successivo, don Francesco Bonifacio, beatificato da Papa Benedetto XVI il 4 ottobre del 2008. A soli 34 anni da giovane sacerdote, fu ucciso in odio alla fede dopo la sua scomparsa nel settembre (probabilmente il giorno 11) del 1946, in una foiba presso Villa Gardossi in Istria. Della sua attività di quegli anni, del suo rapporto con la storia e dell'atmosfera che si viveva specie tra i giovani di cui lui si circondava, parla Mario Ravalico che al beato ha dedicato molti scritti :
R. - Non dimentichiamo che in quegli anni erano due le categorie che erano messe sotto il mirino, da una parte il clero e dall'altra il corpo insegnante. Ma il problema principale per don Francesco era che lui organizzava in quel punto, in quel villaggio, in quella zona intorno a Buie, l'Azione Cattolica per i giovani. E c'è un passaggio molto importante che il postulatore generale - quando prepara nel "72 i riassunti e i vari punti che mette in luce sui motivi di questa vicenda - scrive che i giovani non andavano alle riunioni del partito perché preferivano seguire don Francesco. E fa una sottolineatura: "quello che irritava maggiormente le autorità subentrate in Istria subito dopo la guerra era il fatto che i giovani della cappellania affidata al Servo di Dio don Francesco Bonifacio avevano rinnovato tutti l'adesione all'Azione Cattolica".
Don Francesco si rendeva conto di come stava mutando la situazione e della minaccia che rappresentava per lui?
R. - Don Francesco si rendeva perfettamente conto. Aveva da una parte una grande fiducia nelle persone, perché coloro che lo perseguitavano era gente del posto e gli sembrava quasi impossibile che gli volessero fare del male. E quando riceve questi segnali molto concreti, e poi anche minacce molto più esplicite, va a Trieste dal suo vescovo. Siamo alle fine dell'agosto del "46 e dice: “Mi succede questo cosa devo fare?”. “E tu cosa vorresti fare?” gli chiede dal canto suo il vescovo, e lui risponde: “Vorrei rimanere”.
Don Francesco scompare a un certo punto l'11 settembre del 1946 e non si sa più nulla di lui. Cosa si suppone sia successo e quale si suppone sia stata la sua sorte?
R. - Durante la strada che fa, di ritorno verso la sua curatia, viene attorniato da due guardie popolari del regime e sparisce nel bosco. Una delle ipotesi è appunto che sia finito nella foiba dei Martinesi. Un'altra ipotesi è un piccolo cimitero sempre vicino a Grisignano ma fuori dal paese, dove qualcuno testimonierà che il suo corpo viene bruciato e poi sepolto di nascosto. Ma ci sono ancora altre testimonianze, sono tre e per la verità sono un po' più generiche.
Che testimonianza lascia con la sua vita in un periodo così buio?
R. - La sua testimonianza è quella del perdono: nel momento del martirio, in un brevissimo colloquio che avviene tra l'ufficiale che decide l'uccisione e lui, per tre volte chiede perdono a Dio per i suoi uccisori. Ecco, io devo dire che non ho mai sentito una parola cattiva, una parola di disappunto, meno che meno di vendetta da parte della mamma o dei fratelli e delle sorelle. L'altra cosa che fa specie è che sono avvenuti tanti piccoli "segni" che vogliono come dire che , quel perdono che don Francesco ha dato, ha portato frutto, come il seme del Vangelo.
Attraverso il filtro di un'esperienza di un religioso così, come spiegare a chi non sa quegli anni e soprattutto come dare speranza?
R.- Io credo che il metodo non può che essere quello del raccontare, dando testimonianza e educare, soprattutto i giovani.
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