Coronavirus e media: i rischi dei social e della corsa all’audience
Roberta Gisotti – Città del Vaticano
Ansia, tensione, paura, panico sono tutte manifestazioni, alcune motivate molte altre no, di un comune e diffuso disagio, sia personale che sociale, di fronte ad un evento imprevisto come l’epidemia del coronavirus, che nell’arco di pochi giorni ha investito la vita degli italiani, più di altri popoli europei, chiamati a confrontarsi con un pericolo avvertito poco prima come lontano, che ha indotto il governo e le istituzioni preposte ad adottare misure di contenimento e prevenzione dei contagi, finora inedite per la popolazione.
I comportamenti irrazionali
Tutto ciò sta scatenando anche comportamenti irrazionali, come il precipitarsi a fare scorte alimentari svuotando gli scaffali nei supermercati, perfino nelle regioni dove non ci sono casi di contagi, oppure intasare le farmacie per acquistare mascherine e disinfettanti o prenotarli in rete pagandoli cifre esorbitanti o ricorrere a fantasiose ricette fai da te - diffuse on line - per ottenere soluzioni igieniche.
Il ruolo cruciale dei media
Social e informazione stanno svolgendo un ruolo cruciale, che va riconosciuto e governato, come spiega Chiara Giaccardi, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
E’ la prima seria epidemia in tempi dei social, quali rischi di propagare allarmi, timori, o false informazioni da parte di tutti?
R. – I rischi ci sono e da una parte c'è l'opportunità per ciascuno di esprimere le proprie paure, i propri timori e questo è bene, ma dall'altra parte c’è il rischio di gonfiare paure che generano instabilità, creando una situazione che favorisce quello che Bauman chiamava il “demone della paura”, mentre Heidegger diceva che nella paura si perdono di vista le proprie possibilità. Allora la paura può avvelenare il presente e spesso può essere gonfiata a scopo strumentale perché governare la paura dà potere.
Quale ruolo sta giocando l'informazione? Da un lato è stato detto che bisogna informare correttamente i cittadini, da altro lato di non alimentare il panico. Dov'è il punto di equilibrio?
R. – Credo che il punto di equilibrio sia molto delicato, perché mi sembra che ci sia quasi una 'venerazione' per la scienza: anche se è giusto il rispetto della scienza, bisognerebbe attenersi di più ad alcuni dati come quelli che parlano di una influenza più grave ma non di una pandemia. Se vediamo i decessi sono di persone anziane e vulnerabili; se vediamo poi quanti sono i decessi per un’influenza normale ogni anno verifichiamo che sono infinitamente superiori a quelli per questo nuovo coronavirus. Quindi, da una parte avere la giusta fiducia nella scienza ma non la venerazione e dall'altra parte ricordarci che il rischio fa parte dell'esistenza, il rischio articola la vita e la morte. Noi prendiamo il rischio solo come un timore per la nostra incolumità fisica, dimenticando che la morte è compagna della vita. Questa rimozione della morte ci fa affrontare la questione in maniera viscerale e assolutamente inadeguata, sia dal punto di vista della possibilità di contrastare la diffusione di questo virus sia per il senso che questa diffusione assume rispetto alla nostra vita. Forse potrebbe essere un’occasione per ripensare che la vita e la morte sono compagne di viaggio e che la vita è un'avventura, che si morirà tutti e che questo significa che dobbiamo santificare e rendere sacra la vita, non cercare di combattere la morte affidandoci al panico e a questa "overdose" di informazione poco rassicurante.
Sappiamo bene che le emozioni fanno audience e a quanto pare i media stanno cavalcando una comunicazione altamente adrenalinica, con la conta minuto per minuto dei contagiati, la mappa aggiornata dei focolai. Per non parlare dei talk-show incentrati sul coronavirus, di fatto divenuto quasi un tema di intrattenimento.
R. – Purtroppo questa è una società di consumatori e noi abbiamo fame di notizie e le notizie drammatiche, lo sappiamo, attirano in qualche modo, anche talvolta morbosamente, di più delle buone notizie, nonostante tutti i tentativi che i giornalisti seri facciano per rimettere un po' al centro, riequilibrare la percezione della società attraverso anche il bello che la società esprime; quindi c'è una strumentalità, a mio avviso, evidente non tanto nel dire cose non vere quanto mettendo l'accento su, per esempio, i numeri del contagio e non sui numeri delle guarigioni rispetto a quelli dei decessi. Quindi c'è sicuramente una ‘furbizia’ delle informazioni. Quando non si vendono giornali mettere titoli eclatanti e anche terrorizzanti fa vendere.
Che dire delle tante vignette che girano sui social, alcune onestamente molto divertenti, sono da condannare o l'umorismo gioca un ruolo positivo per sdrammatizzare ansie e tensioni?
R. – Credo che utilizzare una pluralità di linguaggi, soprattutto attraverso i social, dove la comunicazione è veloce e anche più leggera ed è più difficile argomentare, sia tutto sommato qualche cosa di positivo. Io credo che anzi l’ironia ci aiuti a prendere un po' di distacco da una situazione emotivamente sempre più carica, che rischia di farci perdere lucidità e anche di consegnarsi nelle mani di chi ci promette soluzioni che non esistono e dobbiamo renderci conto che la globalizzazione ha anche questo effetto e che i muri contro i virus non ci sono. Quindi forse dovremmo ripensare anche la nostra idea di convivenza globale, di mobilità non soltanto delle persone e delle merci nelle direzioni che ci fanno comodo ma anche dei virus nelle direzioni che non ci fanno comodo. E come questo ci può aiutare a ridare senso a cosa significhi vivere oggi, essere persone oggi nell'epoca della globalizzazione e anche della globalizzazione dei virus.
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