Le Acli: dopo il Coronavirus il lavoro non sarà più lo stesso
Alessandro Guarasci - Città del Vaticano
In Italia lo stop alle attività produttive non essenziali per il Coronavirus rischia di avere un pesante impatto sul lavoro. Nella Messa a Santa Marta, il Papa ha parlato oggi proprio della crisi economica che sta provocando la pandemia e ha rivolto il suo pensiero alle famiglie che hanno problemi per l’impossibilità di lavorare. Il decreto del governo Conte prevede, tra l’altro, che siano chiuse le fabbriche di tabacco, abbigliamento, computer e mobili. Le attività professionali rimangono invece aperte. I sindacati minacciano lo sciopero se il decreto sulle chiusure non sarà modificato in senso più ristrettivo. Roberto Rossini, presidente delle Acli, afferma che si nota che “dai provvedimenti assunti dal governo la situazione è allo stremo. Quando un esecutivo decide di fare una manovra da 25 miliardi, di cui 10 hanno a che fare con gli ammortizzatori sociali, evidentemente ci sono tutti gli estremi per dire che il lavoro così com'è attualmente configurato è in crisi”.
Che cosa comporta questo?
R. - Tutti noi sappiamo che questa emergenza del Coronavirus, questa tragedia, non è una parentesi. E’ un punto dal quale le cose saranno evidentemente diverse. E il tema del lavoro ci preoccupa molto. Noi vediamo oggi che molti settori sono chiusi, altri sono in superlavoro, ma è evidente che ci sono segnali di un’economia che sta profondamente cambiando.
Rossini, è chiaro che questa situazione l'Italia non la può affrontare da sola. L'Europa ha secondo lei gli strumenti necessari per farlo? Possiamo pensare a delle obbligazioni a livello europeo per fronteggiare la situazione?
R. - A me questa sembra una soluzione molto interessante, se sono esplicitamente dei Bond finalizzati ad aiutare quella parte di economia che è in difficoltà. Il sistema ha bisogno di liquidità, non c'è alcun dubbio. Tutti stiamo dicendo la stessa cosa: quando si ricomincerà ci sarà bisogno di liquidità per poter fare qualche investimento per cambiare qualcosa. Quindi è evidente che la liquidità può venire solo dallo Stato e dalle banche che sono garantite da qualche fondo per permettree alle piccole, alle grandi imprese, al terzo settore di cambiare qualcosa. L’Europa sotto questo profilo non deve farsi attendere, deve dare un segnale subito, immediato, di solidarietà in questo ambito.
E poi bisognerà che le imprese riorganizzino i loro sistemi produttivi, che riversino nella produzione un'eventuale iniezione di liquidità da parte delle banche centrali?
R. - E sì, tutto il processo va completamente ripensato. Qualche osservatore in questi giorni sta scrivendo che ci sentiamo come negli anni ’40, in una fase di ricostruzione dopo una guerra. E’ chiaro che sarà un’economia diversa, organizzata in modo diverso. Questo tema del distanziamento sociale, dei dispositivi di sicurezza per i lavoratori, richiede soldi, richiede investimenti. Una piccola azienda, una piccola cooperativa che deve disporre di scanner per la febbre, di gel per le mani, di guanti, che deve tenere il distanziamento tra i dipendenti di almeno un metro deve fare investimenti costosi, che richiedono che qualcuno gli dia una mano perché si possa fare un cambiamento. Altrimenti noi ci troveremo con tante piccole imprese che chiuderanno, e questo sarà un danno non solo economico ma soprattutto sociale.
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