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I promessi sposi I promessi sposi 

Quei Promessi Sposi che ci parlano oggi

“Manzoni mi ha dato tanto”. Così Papa Francesco nel 2013 parlò del suo interesse per “I Promessi Sposi”, letti da lui più volte e richiamati anche in questo periodo. Il grande classico della letteratura italiana, ambientato in un periodo di pestilenza, tratteggia infatti l’umanità con grande attualità

Debora Donnini – Città del Vaticano

“L’amore è intrepido”. Queste parole rivolte dal cardinale Federico Borromeo a don Abbondio nel chiedergli conto dei motivi per i quali non avesse celebrato il matrimonio di Renzo e Lucia, illuminano di una luce sfolgorante la missione dei cristiani di ieri e di oggi, chiamati ad essere come agnelli in mezzo ai lupi, sapendo che soffrire per la giustizia “è il nostro vincere”. Del resto, è tutto il discorso che il cardinale rivolge al curato del paesino in provincia di Lecco, a renderlo evidente con un rimprovero dal sapore cristiano, cioè una chiamata alla conversione, come in fondo sono tutti I Promessi Sposi, un mirabile affresco dell’animo umano in situazioni estreme, che conosciuti per il ruolo centrale che vi ha la Provvidenza, sono anche una scossa per ciascuno a riconoscerla e cooperare con essa. Nel rileggerli, nel tempo dell’emergenza da Coronavirus, non possono che balzare agli occhi quelle affinità che si scatenano nell’animo umano e nelle società quando vengono colpite da un flagello che si trasmette da un essere umano all’altro, costringendo, quindi, o a barricarsi nell’accusa  o, al contrario, a aprire il cuore e per quel che si può a scommettere la propria vita per gli altri, non ubbidendo all’iniquità, come dice sempre il Cardinale a don Abbondio, quell’iniquità che comanda “trasgressione e silenzio”.

Due strade, nel bene nel male, che si ripropongono, perché una calamità così forte fa venire a galla quei vizi e quelle virtù, che noi stessi possiamo scegliere di coltivare o contrastare, nel 1630 come nel 2020. Tante le differenze – certamente – dalle condizioni politiche a quelle sanitarie e sociali fino alla presenza o assenza di carestie, guerre e quant’altro, ma anche tanti gli spunti di riflessione da quelle pagine sulle quali gli italiani hanno posato gli occhi da generazioni e che quindi hanno impregnato la nostra cultura.

È la paura della morte che si staglia davanti, in tutta la sua terribile realtà, con lo scatenarsi della peste facendo spesso detonare tante situazioni di vita quotidiana. L’allungarsi della sua ombra con tanta durezza nelle nostre società non può che acuire, ieri come oggi, le reazioni dell’animo umano, non può che disalienare l’uomo mettendolo di fronte a quella domanda cruciale e decisiva, la stessa domanda che si pose l’Innominato in quella notte che comporterà la sua svolta: e se c’è “quest’altra vita?”…. Una domanda che proprio nella lotta interna dell’Innominato sfocia nel ricordo di una frase che si interseca con l’agire della Provvidenza. “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!”, gli aveva detto poco prima, supplicandolo, quella ragazza inerme e terrorizzata. Parole che risuonano nel suo cuore con un senso di speranza e che rappresentano la breccia per una svolta. Quella misericordia, di cui tante volte parla Papa Francesco, al centro, dunque, dei “cambiamenti decisivi” con cui si confrontano sia gli umili, Renzo e Lucia, sia i potenti come l’Innominato e don Rodrigo e che appare, quindi, come unica via per poter davvero ricominciare. Non a caso, verso la fine del romanzo, Fra’ Crisotoforo invita Renzo a perdonare colui che aveva distrutto la sua vita e la sua felicità per un capriccio. “Benedicilo, e sei benedetto”, dice il cappuccino a Renzo indicandogli un don Rodrigo malato di peste nel lazzaretto perché “forse - afferma - il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva essere pregato da te”. “Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione…d’amore”, rimarca, rendendo evidente che quella interconnessone fra persone di cui oggi si parla molto riguarda anche il Cielo, con una dimensione verticale oltre che orizzontale.

Molti articoli, in questo tempo, hanno rilevato quelle sintonie del dramma con la peste del 1630, a partire dall’incredulità iniziale sulla sua diffusione, che suscitò beffe e disprezzo e quando "la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza” nel tribunale della sanità, la peste era già entrata a Milano. Quella peste, sottovalutata, che invece “invase e spopolò una buona parte d’Italia”. "In principio dunque, non peste, assolutamente no - narra Manzoni - per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.  E, quindi, poi, la paura, la ricerca affannata del paziente zero e la caccia all’untore. Così come la presenza nel lazzeretto dei cappuccini - a loro era affidato -  e dei parroci della città ricorda tanti atti eroici di oggi, di quei tanti che per curare, hanno rischiato, e in alcuni casi anche perso, la loro vita.

Non è possibile in questa sede soffermarsi oltre, sulle altre figure chiave come sulla monaca sventurata che rispose o sulla codardia di don Abbondio, a cui il cardinale Borromeo ricorda che l’iniquità si fonda non solo sulle sue forze ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui o infine su quell’icona di amore che è la madre di Cecilia, facendo versare tante lacrime che oggi si sono versate in particolare per i nostri anziani, i più colpiti, morti anche soli. Quel che è certo è tanti disegni, come quelli maligni di don Rodrigo, furono spazzati via. Si può, quindi, ricordare quel “sugo” di tutta la storia, come lo chiama Manzoni, sui “guai” che capitano, per colpa o senza colpa, ma che “la fiducia in Dio” raddolcisce, “e li rende utili per una vita migliore”.

E, dunque, un richiamo a quella Provvidenza a cui fanno pensare le parole di un altro frate cappuccino, vissuto oltre 400 anni dopo quel Fra’ Cristoforo. Padre Raniero Cantalamessa, alla liturgia della Passione nel Venerdì’ Santo, in San Pietro, davanti al Papa e a una Basilica quasi vuota, ha infatti delineato con semplice finezza quella filosofia della storia su cui si è spinti a riflettere di fronte ad eventi che mettono in crisi il senso di onnipotenza. Dio, a volte, sconvolge i nostri progetti, ma “non è Dio che con il Coronavirus ha scaraventato il pennello sull’affresco della nostra orgogliosa civiltà tecnologica”, ha detto. “Dio è nostra alleato”, “soffre come ogni padre e ogni madre” ed è capace – ha ricordato Cantalamessa con sant’Agostino – di “trarre dal male stesso il bene”. Dio permette che la libertà umana e della natura - anche se quest’ultima è qualitativamente diversa dalla prima - facciano il proprio corso nell’orizzonte di quello che alcuni chiamano il caso e che la Bibbia chiama invece “sapienza di Dio”. Tutto, perché la croce di Cristo ha cambiato “il senso del dolore” e la sofferenza non è più intesa come un castigo ma è stata redenta. E per questo è forte il richiamo a cambiare direzione, andando verso un mondo più ricco di umanità, dove quel perdono, tanto caro al Manzoni, può davvero cambiare la Storia.

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22 aprile 2020, 08:00