75 anni fa la fine della II guerra mondiale, tempo, come oggi, di ripartenza e ricostruzione
Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
Sono passati 75 anni dalla resa della Germania nazista e dalla conclusione, in Europa, della seconda guerra mondiale. Il documento definitivo che pone ufficialmente fine alle ostilità nello scacchiere europeo viene firmato la notte dell'8 maggio a Berlino. Si chiude così, tra numerose incognite e speranze, una pagina drammatica con oltre 50 milioni di morti. In molti Paesi, la fine del conflitto è salutata dal suono delle campane e da popoli giubilanti che affollano strade e piazze. All'indomani della resa della Germania, Papa Pio XII auspica in un radiomessaggio che dai sepolcri sorgano “i plasmatori e gli artefici di una nuova e migliore Europa”.
Dall’eclissi della guerra a nuove visioni di comunità
Non si deve pensare alla seconda guerra mondiale come ad un elemento lontano della storia che non parla all’uomo di oggi. Il professor Giulio Alfano, docente di Filosofia politica presso la Pontificia Università Lateranense e presidente dell’Istituto Emmanuel Mounier, ripercorre quella densa pagina legata alla conclusione della seconda guerra mondiale intrecciandola con il periodo che stiamo vivendo. Il valore autentico della comunità, della cooperazione e soprattutto la centralità della persona, sottolinea, sono i fari che devono illuminare anche il nostro tempo, oggi oscurato dalle ombre della pandemia.
R. – Nel 1945 si concludeva un periodo molto più lungo della tragedia che aveva investito l’Europa e il mondo con la seconda guerra mondiale. Si concludeva quel mondo che si era aperto già nel primo Novecento con un radicalismo ontologico molto forte. Questo aveva condotto a quelle che oggi vengono definite le grandi narrazioni del Novecento e aveva comportato, non soltanto l’eclissi della democrazia, ma anche una trasformazione dei valori dell’uomo. Era un’Europa devastata non soltanto territorialmente e materialmente. C’era da ricostruire tutto un tessuto sociale e morale. Proprio in quegli anni, tra il 1945 e il 1951, si creano i presupposti non solo di un ritorno ad una democrazia sempre più partecipativa. La grande novità è il superamento dei confini attraverso la visione di un’Europa unita.
Questo lo possiamo vedere anche attraverso ‘l’apostolato politico’ di grandi uomini, non solo del mondo cattolico. Vengono in mente grandi personaggi che poi crearono l’Europa: Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Paul Henri Spaak. Ma anche tutti coloro che, anche da posizioni lontanissime, avevano capito che occorreva rinnovare la politica. Per rinnovare la politica erano necessari non soltanto un pensiero e una proposta - perché queste c’erano state anche prima della tragedia della seconda guerra mondiale - ma bisognava far tornare la politica nel solco dei suoi valori fondamentali. Era necessario questo rinnovamento operando una sintesi, che poi sarà compiuta dalle grandi Costituzioni, in primis quella della Repubblica italiana nata proprio all’indomani del secondo conflitto mondiale.
Dopo l’eclissi della guerra, quale ruolo e quali responsabilità hanno avuto i singoli Stati nella ricostruzione, per promuovere la democrazia e nel gettare le basi che hanno portato al mondo che conosciamo oggi?
R. – La conclusione di questa tragedia che era stata la seconda guerra mondiale, e con essa la fine delle ideologie così dannose e perverse che si erano manifestate, aprì nuove pagine. Portò non solo gli Stati che avevano perso la seconda guerra mondiale ma anche quelli che l’avevano vinta, ad immaginare un mondo che andasse al di là dei confini, pur rimanendo ancora presente lo Stato-nazione. E questo veniva portato avanti mettendo insieme quello che ognuno poteva offrire in una visione di cooperazione. Dopo la seconda guerra mondiale è emerso, anche nelle relazioni internazionali, il concetto di comunità. Non a caso, i primi passi di quella che poi sarebbe stata l’Unione Europea, rientravano in quella che veniva definita Comunità europea, ovvero un insieme di soggetti plurali che si riconoscono reciprocamente e al di là delle appartenenze nazionali. Questo è stato il motore.
Basti pensare a quando nacque, qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca). Era nata per mettere insieme quelle poche cose che potevano essere elemento di scambio, ma anche di crescita e di promozione. Quindi inizia, in quel periodo, un lungo cammino, poi caratterizzato anche da difficoltà e da contrasti che ancora non si è concluso. Di quell’epoca andrebbe ripreso proprio il concetto di comunità. Questo era un po’ il panorama di quel periodo. L’idea era quella di far nascere un’idea di Europa, ma anche un’idea di mondo diversa. Si voleva creare l’immagine secondo cui i diversi Continenti potessero realizzarsi attraverso delle comunità continentali. E questo per rendere possibile il dialogo e il confronto per poter cooperare. Da quel momento, quindi, non sono solo nate le comunità continentali come la comunità Europea, l’Unione africana etc, ma sono nati anche organismi di cooperazione che si sono occupati di diversi settori. È una immagine di vita nuova quella che emerge dopo la seconda guerra mondiale. Questo è il dato di fatto fondamentale dal quale non si potrà più prescindere.
La Germania uscita sconfitta nel 1945 dalla guerra e la Germania di oggi, locomotiva d’Europa, sono molto diverse. Ma sullo sfondo c’è sempre l’Europa chiamata a far rinascere, anche oggi, una società segnata da gravi affanni, anche economici…
R. - La Germania aveva non solo provocato, ma anche perduto ben due guerre mondiali. Alla fine della seconda guerra mondiale è uscita doppiamente sconfitta. Però quella Germania, alla fine della guerra, ha trovato in sé gli elementi per diventare oggi non solo il traino economico dell’Europa, ma anche per essere un esempio di ricostruzione morale. La Germania esce dalla seconda guerra mondiale castigata due volte, non solo dal punto di vista morale ed economico ma anche territoriale perché per molti anni verrà divisa. Però rimane l’elemento centrale, in quegli anni successivi alla seconda guerra mondiale, di una Germania che parte non dal populismo ma dal popolo. La Germania, che aveva fatto del popolo un’esperienza negativa, dal popolo ottiene il riscatto verso una forte democrazia. Oggi possiamo dire realmente che la Germania per Paesi attraversati da radicalismi, da populismi e da esperienze estemporanee, è anche un esempio di solidità democratica molto forte. Questa solidità da cosa è nata? È nata, e questo i tedeschi lo sanno bene, anche dalla collaborazione con gli altri Stati, con quei Paesi che avevano vinto la seconda guerra mondiale.
Quindi ricaviamo una lezione a due facce. Da un lato vediamo il popolo tedesco che ha saputo riscattarsi con gli strumenti della democrazia, diventando uno dei protagonisti prima della Comunità e, poi, dell’Unione europea. Dall’altro lato, si deve però riconoscere che è stata la Germania stessa ad essere riammessa nel consorzio delle nazioni democratiche attraverso la collaborazione e la cooperazione. Questo è un elemento importantissimo e ci deve far sperare in una Europa dove non ci siano muri - la Germania ha vissuto per diversi decenni l’esperienza del muro - e le conflittualità. Questo deve far sperare in una Europa dove non ci siano anche dei protagonisti. La Germania e gli altri popoli che oggi sono un po’ avvantaggiati economicamente, si ricordino di questo. Le fluttuazioni della storia possono riguardare tutti i popoli e tutte le società. Le fluttuazioni della storia si superano attraverso la collaborazione che è ricchezza. Questo ce lo insegna la natura: la diversità e la pluralità sono elementi che troviamo in natura. E la natura si rinnova proprio attraverso questa pluralità. Nel mondo degli umani questo deve tradursi in collaborazione e cooperazione.
Ci sono delle analogie tra quel periodo legato alla fine della seconda guerra mondiale, segnato anche da grandi incertezze e dalla necessità di una ripartenza, e il tempo che viviamo oggi funestato dalla crisi e dalla pandemia?
R. – Probabilmente questa incertezza così imprevista e per certi versi inimmaginabile, che ci ha fatto vivere questo ‘lockdown’ dovuto alla pandemia, ci deve ancor far riflettere di più sulla necessità di una cooperazione. Proprio questo evento così drammatico, luttuoso e inaspettato contrasta quell’idea di populismo che si stava diffondendo dappertutto. Questo periodo ci offre l’opportunità di ritornare alle matrici fondamentali di quella cooperazione. Allora uscivamo da macerie materiali e morali. Oggi usciamo, sperando sempre che questo periodo si concluda nel più breve tempo possibile, da emergenze anche di natura economica. Però alla base c'è, ancora una volta, l'esigenza di un dialogo per la ricostruzione. E si devono anche rivedere gli stili di vita che, negli ultimi tempi, avevamo adottato. Si deve ricostruire – il ‘trade union’ può essere questo - il tessuto etico e morale delle società.
Nel 1945 i principali attori che hanno portato ad un nuovo assetto mondiale sono stati grandi uomini, i singoli Paesi e i grandi partiti politici. Oggi, in un mondo profondamente mutato e trasformato dalla globalizzazione, a quali forze dominanti e a quali nuove dinamiche dobbiamo legare il futuro?
R.- Si deve ritornare alla centralità della persona, indipendentemente dalle credenze religiose, dalle scelte politiche. La centralità della persona e l'emergenza del diritto sono gli elementi fondamentali. La seconda guerra mondiale si è conclusa con un episodio, dal punto di vista giurisprudenziale, che non era mai accaduto: il processo di Norimberga, con i vincitori che processavano i vinti. Questo è stato necessario, non tanto nei confronti di quei soggetti che erano vinti ed ormai condannati dalla storia, ma per ricordare che la centralità dell’uomo-persona determina la grandezza di una prospettiva politica fondata sulla promozione dell’uomo. Io dico sempre ai miei studenti una frase che loro spesso ripetono: chi difende i propri diritti, esercita meglio i propri doveri. Vivere una democrazia non è soltanto un bell’ideale: se non ci sono concretamente gli strumenti operativi per realizzarla concretamente, rimane solo un ideale. E questi strumenti operativi devono partire dalla centralità della persona che è il diritto sussistente. Si deve ritornare a questo e ricordarsi, però, che ripartire dalla centralità della persona significa anche assumersi delle responsabilità. Responsabilità nei confronti della natura, come ci ha ricordato molto bene Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’. E poi si devono rispettare la dignità dell’uomo e si deve affrontare il problema del lavoro. Quella del lavoro, come avveniva alla fine della seconda guerra mondiale, è oggi una delle emergenze.
Il lavoro è l’elemento che rende dignitoso l’uomo, che consente di arricchire il nostro senso di libertà: non avere lavoro significa non essere liberi. Non avere il lavoro significa anche non avere la possibilità di operare concretamente per il bene della società. Si deve ripartire dalla centralità della persona. E in questo dobbiamo riconoscere che tutte le nostre carte costituzionali sono state un punto di convergenza di diversi pensieri politici, ma che avevano alla base la finalità non di superarsi reciprocamente o di affermarci uno contro l’altro. Avevano la finalità di pervenire ad una sintesi per rendere il cittadino responsabile di se stesso attraverso la salvaguardia dei suoi diritti e attraverso l’inviolabilità della sua persona. La scuola, le università e le famiglie sono fondamentali perché lì nasce l’uomo. Si devono educare i giovani a questo, non alla competizione. Le guerre sono sempre nate per competizione. La competizione deve essere un qualcosa di interiore per migliorarsi reciprocamente e, soprattutto, individualmente. Non deve essere, invece, uno strumento per sopraffare l’altro. Questo è forse l’insegnamento che nel 1945 ricavavano quegli uomini e che oggi è ancora attuale.
Durante la seconda guerra mondiale, la spartizione dell’Europa tra le grandi potenze alleate ha portato alla guerra fredda e al sorgere di blocchi contrapposti. Si sta configurando anche oggi, per motivi diversi, un assetto mondiale profondamente diviso, in questo caso dalle spinte della globalizzazione e dalle resistenze dei nazionalismi?
R.- Certamente, perché stiamo arrivando ad un periodo che non è peculiare della globalizzazione, ma della post globalizzazione. È un mondo non diviso più verticalmente ma orizzontalmente. È diviso tra un Nord sempre più avanzato e un Sud in difficoltà. Quello che colpisce oggi è la disparità tra lo sviluppo e il progresso. Se sviluppo e progresso non vanno di pari passo, non solo c’è il pericolo dei populismi, ma anche degli antagonismi. E questi antagonismi possono essere militari, economici, tecnologici, culturali. È quindi importantissimo il ruolo della cooperazione per rendere, sempre più costante, il rapporto tra progresso e sviluppo. Questo è fondamentale. In questo senso, credo che le esperienze, non solo politiche ma anche di confronto e di dialogo tra le religioni - che sono una parte importante nella vita degli uomini - possa contribuire a colmare questo divario tra sviluppo e progresso.
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