L’economia di Betlemme in ginocchio per l’emergenza Covid
Fabio Colagrande – Città del Vaticano
In Terra Santa, la seconda ondata di pandemia, cominciata alla fine di giugno, si è rivelata più intensa della prima e continua a produrre gravi contraccolpi sociali soprattutto in Palestina. A essere particolarmente colpita dal blocco dei pellegrinaggi, in vigore in pratica dai primi di marzo, è la comunità cristiana di Betlemme che basa la sua economia sul turismo religioso. In una situazione di preoccupazione per il virus, aggravata da un sistema sanitario strutturalmente carente, si innesta il disagio creato dalla crisi economica e lavorativa. Le difficoltà delle famiglie sono accentuate dall’assenza di sostegni sociali pubblici. Lo conferma da Betlemme, ai microfoni di Radio Vaticana Italia, Vincenzo Bellomo, responsabile dei progetti dell’Associazione pro Terra Sancta, struttura a servizio della missione della Custodia.
R.- Avevamo avuto un primo allarme coronavirus nei primi giorni del mese di marzo in tutta la Terra Santa. In quei giorni a Betlemme si era registrato il più alto numero di casi. La stessa fase iniziale di paura che ha un po' caratterizzato la storia dell'Italia e di altri Paesi in Europa. Poi, verso la fine di maggio e i primi giorni di giugno, sembrava che l'emergenza fosse rientrata. Ma dalla fine di giugno i casi di coronavirus sono fortemente aumentati di nuovo in tutto Israele e anche qui in Palestina oggi siamo di nuovo considerati “zona rossa”. Pensare che erano di nuovo cominciati i primi voli aerei, c'erano dei buoni segnali tra maggio e giugno… Ma ora siamo in piena seconda ondata, siamo in stato di emergenza. C’è una situazione molto particolare di attenzione in Israele, con circa duemila casi ogni giorno, mentre qui in Palestina la media è di circa seicento casi giornalieri. Quindi purtroppo la situazione resta abbastanza grave.
Qual è la situazione attuale a livello sanitario in Palestina?
R.- L’Autorità palestinese inizialmente si è trovata un po' come tutti a disagio con la pandemia, soprattutto perché in Palestina per questioni legate alla situazione politica viviamo una situazione sanitaria già critica in tempi normali. La gestione sanitaria del Paese è quindi praticamente sempre in emergenza. In questi tre o quattro mesi l'Autorità Nazionale Palestinese ha cercato di fare il possibile per organizzarsi con dei centri nelle città più importanti colpite dal virus. Un piccolo centro per il Covid con cinquanta posti letto è stato allestito anche a Betlemme. Ma è un centro che deve coprire una popolazione di quasi duecentomila abitanti, quindi capite che la preoccupazione è molto alta. Anche perché di queste cinquanta posti letto quasi la metà sono già occupati in terapia intensiva. Quindi, direi, la preoccupazione resta alta, anche se il disagio creato dalla crisi economica attualmente è più forte di quello causato dal virus.
I contraccolpi economici e sociali per la popolazione palestinese sono infatti molto forti…
R.- Purtroppo, sì. Soprattutto, debbo dire, nell’area di Betlemme che traina in tutta la Palestina l’economia legata al turismo religioso dei pellegrini. All’interno dell’area di Betlemme a essere colpita è in particolar modo la situazione economica della comunità cristiana, della minoranza cristiana, che qui è legata principalmente all'accoglienza dei pellegrini e alla gestione del turismo religioso. Pensate che dal cinque marzo qui è tutto fermo e non esiste nessuna previdenza sociale, non c'è nessun sistema di sostegno. In questi casi le famiglie sono l’unica forma di sostegno, di aiuto. Chi può aiuta i vari componenti della famiglia. Ma la situazione finanziaria è gravissima e purtroppo non abbiamo nemmeno una proiezione che ci dica fino a quando questa crisi possa durare. Certo è che fino a quando non riprenderanno i pellegrinaggi la situazione finanziaria delle famiglie e delle persone che serviamo qui da molti anni è veramente in bilico.
La Basilica della Natività e gli altri Luoghi Santi sono chiusi attualmente?
R.- Sono chiusi ma anche aperti. Mi spiego: la Basilica della Natività è anche parrocchia, quindi è il luogo centrale per la comunità cristiana di Betlemme. È stata chiusa nelle ultime tre settimane ma adesso da domenica 26 luglio è riaperta. Come tutti i luoghi di preghiera è chiusa durante il fine settimana, ma durante la settimana, naturalmente osservando le misure di sicurezza sanitaria, i cristiani possono andare in chiesa. I frati e i religiosi della Basilica utilizzano le cappelle per piccoli numeri di religiosi o parrocchiani che vogliono comunque partecipare alla Santa Messa, ma ufficialmente i Santuari sono chiusi, così come sono chiusi a Betlemme la “Grotta del latte” e il “Campo dei pastori”. Anche perché non ci sono pellegrini, è tutto completamente fermo. Siamo passati di colpo da un periodo in cui c'erano tantissimi visitatori, moltissimi pellegrini alla situazione di oggi. Adesso vedere l'erba alta in diversi punti della città devo ammettere che è abbastanza triste.
Molti palestinesi avevano investito, magari anche indebitandosi, contando sul turismo perché sapevano che era una fonte di guadagno certa…
R.- Sì, è quello che è successo alle nostre comunità. Negli ultimi due anni c’era stato un “boom” di pellegrini, incoraggiati anche da una situazione politica sempre in bilico ma stabile rispetto agli anni passati. Molta gente aveva perciò espresso il desiderio di venire in Terra Santa, tanto che era quasi difficile per chi arrivava qui trovare un posto per dormire. Questa situazione economica ha incoraggiato le famiglie a fare piccoli investimenti, iscrivere i figli all’università, fare qualche programma per il futuro e quindi anche a indebitarsi. Il problema è che adesso tutto si è bloccato e qui l’Autorità Palestinese non ha alcun tipo di “welfare”, di stato sociale, quindi per le famiglie la situazione è abbastanza drammatica.
Qual è la situazione dei betlemiti abituati ad attraversare il check-point israeliano per andare a lavorare a Gerusalemme e dintorni?
R.- Quella è una piccola parte di economia che ancora regge, perché i permessi in questi mesi sono stati assicurati da Israele. L’Autorità Palestinese ha cercato di frenare il movimento tra i check-point perché in Israele il numero degli infetti a causa della pandemia è stato molto più alto rispetto alla Palestina. C’era quindi la preoccupazione che questi lavoratori diventassero dei canali per trasmettere il virus e poi portarlo nelle famiglie, in un contesto dove non c’è sanità pubblica. Questa è stata la preoccupazione principale, ma l’esigenza di lavorare per mantenere la famiglia è più alta. Quindi tantissima gente continua ad attraversare il check-point e da circa un mese le autorità israeliane e palestinesi si sono accordate stabilendo che chi passa il check-point per andare a lavorare in Israele deve avere lì un posto dove dormire per almeno quattordici giorni. Poi quando rientra in Palestina, in teoria, dovrebbe fare le analisi, oppure qualche giorno di quarantena. Devo dire che la pandemia ha messo anche in crisi il sistema dei controlli, dei confini, perché è una crisi che riguarda tutti, non solo una parte. Quindi ci sono delle regole ma c'è anche tanta confusione.
Quali sono i progetti con cui cercate di sostenere la popolazione in questo momento?
R.- Io vivo e lavoro a Betlemme da tredici anni, a servizio della missione dei francescani in Terra Santa, con l’Associazione Pro Terra Sancta, e in questi anni ci siamo sempre occupati delle persone. Da un lato dei bisogni primari delle persone e dall’altro di comunicare la bellezza di questi luoghi. Ci prendiamo cura degli anziani, soprattutto in questo momento, ma lo abbiamo sempre fatto perché in un luogo dove non c’è “welfare” sono tra le fasce più colpite visto che qui non esiste nessun sistema pensionistico. Lavoriamo anche con i disabili, con le persone in difficoltà, abbiamo un Centro di ascolto che gestisco direttamente con un altro assistente sociale in cui riceviamo le persone che hanno bisogno di assistenza sanitaria. Qui, infatti, non esiste un sistema sanitario pubblico funzionante. Ma al centro della nostra missione c'è stata sempre l'attenzione al lavoro, soprattutto per i giovani. In queste settimane, stiamo attivando anche un progetto importante che con coraggio vogliamo portare avanti, perché era nei nostri sogni ancora prima della pandemia. Si tratta del progetto chiamato “La casa dei Re Magi”, che vuole essere il primo Centro per l’impiego in Palestina. Lo scopo è dare al lavoro quell’importanza che merita per tutte le persone, con un particolare sguardo a chi è in difficoltà. La Palestina, tra i Paesi arabi, è quello con il più alto numero di giovani con problemi di disabilità mentale ma anche di depressione. Questo è dovuto alle questioni legate al conflitto. Noi a questi ragazzi, a queste persone, vogliamo offrire un'opportunità di lavoro. Il lavoro qui è anche il mezzo per evitare l'emigrazione, per far restare qui le famiglie. Se si ha il lavoro e uno stipendio decente non si tenta di emigrare, non si lascia la propria casa, la propria terra. Soprattutto in queste settimane in cui appunto molti hanno perso il lavoro stiamo cercando anche di inventarci progetti, attività. Per esempio la produzione di mascherine con un gruppo di donne che stanno imparando a cucirle. Oppure progetti di ristrutturazione edilizia. Stiamo cercando il più possibile di stare vicini alla comunità locale offrendo opportunità sia di assistenza che di vicinanza, prossimità.
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