Dentro un hospice, per una vita piena
Antonella Palermo – Città del Vaticano
Con una gentilezza e una umiltà disarmanti, ci dice di richiamarlo verso mezzanotte, quando avrà finito di monitorare una trasfusione domiciliare. "Spero non sia troppo tardi per lei. Per me non c'è problema, vado sempre a dormire non prima delle due". "Non si preoccupi, a dopo". Mariano Flocco, medico anestesista, è il responsabile dell'hospice "Madre Teresa di Calcutta", a Larino (CB). Struttura pubblica - creata nel 2010, quando in Italia veniva alla alla luce la rete delle cure palliative – è unico centro nella Regione Molise. Di piccole dimensioni all'inizio, attualmente dispone di 16 posti letto, "uno standard importante per un hospice". Il personale è altamente selezionato, anzi, come precisa il dottor Flocco, auto-selezionato: "Chi non è fortemente accompagnato da una attitudine a questo lavoro molla subito per i carichi emotivi a cui ci si deve sottoporre. Siamo un gruppo coeso, ci sosteniamo a vicenda, lavoriamo come équipe".
A servizio della vita
"Noi abbiamo sposato questo approccio di servizio perché molti di noi hanno un vissuto di perdita di familiari cari – racconta Flocco - e abbiamo toccato con mano una situazione di emergenza in cui abbiamo vissuto la vita fino all'ultimo istante, senza pensare tanto al suo termine, che comunque è ineluttabile per tutti. La possibilità di dare qualità di vita fino all'ultimo istante è stato sempre il nostro mandato e il nostro desiderio. Piano piano si è creato un gruppo di lavoro di persone molto motivate che ha permesso di spostare l'attenzione non più sulla risoluzione della malattia ma sulla possibilità di rendere il percorso più lieve possibile. Negli hospice questo concetto è espresso in maniera assoluta ma io credo che dovrebbe essere portato avanti da chiunque si occupi della cura".
Insieme alle famiglie
"Noi favoriamo il più possibile la presenza del familiare accanto al malato", continua il medico. Nella struttura, infatti, ogni camera di degenza prevede un solo posto letto ma, considerati gli ampi spazi, prevede anche la contemporanea presenza di più familiari. "Sono loro la vera casa del malato, non le mura. La loro presenza cambia totalmente la qualità di cura. In realtà non sono loro gli ospiti, ma noi sanitari; le famiglie i padroni di casa. E' l'ambiente che da solo fa scattare questa amicizia, questa fratellanza, quest'affetto. E ogni sanitario che arriva – spiega - viene coinvolto da questo stile di vita che è molto contagioso".
Laddove è possibile, si cerca di portare il concetto di hospice nella casa del paziente, "in quei casi riusciamo ad avere dei risultati molto buoni". Ci si prova "soprattutto in questo periodo di emergenza pandemica, in cui facciamo più fatica a far entrare tante persone dentro l'hospice. Quando poi le condizioni del paziente sono tali da far considerare l'idea di entrare nell'hospice, ci si può trovare a sperimentare un senso di sconfitta, ma poi ci si accorge che non lo è, che non è un fallimento".
L'affetto che dilata le prognosi
"Noi cerchiamo di favorire i ricongiungimenti familiari. A volte la malattia non basta per far riavvicinare le persone – sottolinea il dottor Flocco - ci vuole allora qualcosa che le incentivi, qualche racconto da parte nostra che permetta al familiare di riscoprire quel senso di affetto e di appartenenenza al proprio congiunto". Avrebbe tante storie da raccontare, e non solo di figli che tornano accanto a genitori, ma anche di genitori che tornano amorevolmente ad assistere il proprio figlio come quando erano piccoli. E insiste su storie di prognosi molto più lunghe di quanto era previsto. "In Italia, rispetto all'estero, siamo meno propensi ad essere precisi nello stabilire la sopravvivenza in relazione a una malattia", spiega. "Ma alle volte lo facciamo e veniamo sorpresi quando si allunga perché evidentemente c'è un segreto che va molto al di là delle nostre 'armi' farmacologiche.
La storia di una mamma e di una figlia
Il dottor Flocco ce l'ha sempre davanti agli occhi quella vita, anzi, quel ritrovo di vite. E racconta di una donna arrivata con una prognosi di una settimana per una malattia molto avanzata. Un marito anch'egli malato non in grado di esserle accanto. Una figlia lontana con impegni lavorativi tali per cui il lavoro stesso era una via di fuga rispetto al dolore. Lei ha temporeggiato ad avvicinarsi alla madre. Poi è arrivata, ed entrambe si sono illuminate. "Noi come medici osserviamo da spettatori in maniera quasi indegna questi miracoli di vita. Per noi sono un insegnamento forte, quasi una preghiera. In pochi istanti si è creata una armonia tale tra loro che siamo rimasti molto sorpresi. Ma la figlia non ce l'ha fatta a restare e ha deciso di tornare al suo lavoro impellente. Si sarebbe assentata per quindici giorni, sapevamo che la mamma non sarebbe durata così tanto. Invece, con alti bassi, ha continuato a vivere. La figlia è tornata ed è rimasta una settimana. La mamma risorgeva. Poi di nuovo la ripartenza per esigenze che noi rispettavamo in maniera assoluta. Questa prognosi di pochi giorni da noi è durata un anno e mezzo. Nella continua spola della figlia, la madre rinasceva ogni giorno. Si rinvigorivano entrambe ogni volta. Alla fine hanno avuto modo di dirsi proprio tutto e, solo allora, la mamma è volata in cielo, con un passaggio di una delicatezza straordinaria, con una dolcezza commovente. Al di là di ogni azione e spiegazione tecnica.
"Qui si arriva per vivere, non per morire"
La ripete spesso questa frase, il dottor Flocco. "Il nostro hospice ha ereditato questo stile da un padre cappuccino che dieci anni fa arrivò insieme a me in questa struttura. Cambiando l'unità di misura, lui sottolineava molto che non era improtante contare il tempo che passa. Paragonava la vita a quella di una farfalla in cui sono gli istanti quelli che contano, e gli istanti sono miliardi, non sono pochi. Vivere appieno gustando l'essenzialità delle cose, questo abbiamo ereditato".
La cura spirituale
La figura dell'assistente spirituale è un aspetto assolutamente imprescindibile in un hospice, spiega Flocco. "Purtroppo non abbiamo la maturità di capire quanto sia importante". Ma se una persona non è credente? "E' sempre difficile stabilire se la dimensione della trascendenza c'è o non c'è, soprattutto nella fase del fine vita. Noi siamo abituati ad avere ospiti in prevalenza cattolici, con una regolare pratica di fede, ma ora i vissuti sono variegati: dalla persona che si professa atea a persone di altre fedi e a chi si presenta con idee originali e stravaganti. Noi non imponiamo mai la figura del religioso – precisa - proponiamo solamente. E vediamo che persone lontane da un orizzonte di fede, hanno, non dico una conversione, ma quanto meno la possibilità di un dialogo aperto, un confronto umanamente utile. Successe anche che, dopo quattro anni di questa attività, abbiamo portato qui padre Giorgio, un giovane frate con un tumore cerebrale. Ci accompagnammo reciprocamente. Fino al traguardo rimasi con lui. Mi lasciò, mio malgrado, una sorta di testimone. Pochi, come lui, hanno badato allo spirito della persona. Ogni peso, ogni dolore, trasformato in una brezza leggera".
Prepararci al morire
Lamenta la mancanza di una adeguata 'formazione' alla morte, spesso rimossa, per paura? "Prepararci al morire a volte viene quasi istituzionalizzato, tecnicizzato e schematizzato. Secondo me i percosi sono estremamente individuali, intimi, delicati. Sono utili dei principi, dei consigli, anche dei corsi. Ma poi ci troviamo nella situazione specifica in cui ci accorgiamo che è tutto diverso. Ogni storia è a sé. L'unica cosa che ci può essere essere d'aiuto nei confronti dei malati, in grado perfettamente di capire se chi si ha di fronte è una persona che ci mette il cuore oppure no, è l'affetto. Alla fine ciò che conta è far capo alla propria vita vera. Questo ci rende credibili, altrimenti falliamo".
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui