Covid - 19: preoccupante impennata di casi in Europa
Francesca Sabatinelli - Città del Vaticano
I numeri sono drammaticamente in crescita in tutti i Paesi. 6 milioni di casi europei vedono un drastico peggioramento in Francia che, con oltre 18700 contagi giornalieri, registrati ieri, e 650mila in totale, è avviata verso maggiori restrizioni, e poi in Belgio dove da oggi, caffè e bar di Bruxelles chiuderanno per un mese. Poi ancora gli Stati Uniti dove è stata toccata ieri la cifra di oltre 7 milioni e mezzo di casi di contagio da coronavirus e 211mila morti. In Canada sale la media delle persone malate. Ma i casi sono in impennata ovunque dall'Argentina al Brasile, con i suoi 5 milioni di casi, alla Colombia.
Di record si parla anche in Iran, tra i più colpiti del medioriente, che lotta con quella che è già stata definita la terza ondata di epidemia, mentre in Tunisia è stato introdotto il coprifuoco notturno per 15 giorni per evitare la diffusione del virus.In Italia. Intanto il presidente Mattarella ha firmato il decreto legge che proroga al 31 gennaio prossimo lo stato di emergenza e che introduce l'uso delle mascherine anche all'aperto. Anche nella penisola, si registra un boom di casi sopra i tremila in un solo giorno. A spiegare le ragioni dell’aumento dei casi i Europa e in altre aree del mondo è Antonio Clavenna, ricercatore del dipartimento di Salute pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri:
R. - Nel momento in cui non ci sono più delle misure abbastanza drastiche di contenimento e il virus continua a circolare, ci si può attendere che dopo un certo periodo il numero di contagi tenda a salire. Questo è avvenuto diversamente nelle varie nazioni europee. In Italia, fino ad oggi, la situazione si è mantenuta abbastanza sotto controllo, se non per un progressivo aumento dei casi. In altre nazioni, questo aumento è stato un po' più evidente ed importante. I motivi possono essere molteplici: dal fatto che adesso, rispetto a pochi mesi fa, si fanno più tamponi, per cui si cerca un po' più attivamente la presenza del virus nella popolazione, al fatto che ci sono state le vacanze estive, per cui alcune norme di comportamento sono state un po’ abbandonate. Direi che, invece, quantomeno per la realtà italiana, l’impatto dell'apertura delle scuole inizieremo a vederlo nei prossimi giorni, ancora non si sta osservando, se non inizialmente.
È vero che c'è forte differenza tra i contagi di tipo familiare e i contagi, invece, che sono esterni alla famiglia? Sembra che quelli di tipo familiare siano numericamente molto più importanti ...
R. - Sì, è un qualcosa che è descritto oggi, ma che è avvenuto anche nelle prime fasi dell'epidemia, cioè la maggior parte dei contagi avvengono in ambiente familiare. Nelle ultime due settimane, in Italia, si parla di circa tre contagi su quattro, tre focolai su quattro, tra le mura domestiche. Questo è in qualche modo anche spiegabile dal fatto che all'interno di molte abitazioni è difficile mantenere un isolamento stretto per una persona che è positiva al virus e che ha la malattia, per cui non non sempre è possibile e semplice tutelare le altre persone che vivono all'interno dello stesso appartamento, nella stessa casa, con una persona che è malata.
Sin dall'inizio è stata ribadita la necessità di mantenere le distanze. Ora si è arrivati alla decisione di adottare le mascherine anche in luoghi aperti e quindi non soltanto al chiuso. Resta però il fatto che il rischio di contagio all'aria aperta è comunque inferiore di molto rispetto al contagio al chiuso ...
R.- Sì, gli studi che hanno cercato di stimare come avviene il contagio all'interno della popolazione, indicano che la probabilità di contagiarsi all'aria aperta è circa 20 volte più bassa rispetto alla probabilità di contagiarsi un ambiente chiuso, e in generale all'aperto questa probabilità è quasi esclusivamente legata a situazioni in cui c'è un affollamento e le persone sono a una distanza ravvicinata, magari parlano, gridano, per cui sono situazioni particolari di assembramento. In situazioni in cui c'è magari la persona che passeggia all'aria aperta, anche se incrocia altre persone, è alquanto improbabile il contagio. È necessaria un’attenzione massima e particolare negli ambienti chiusi, stretti e poco ventilati. Bisogna prestare attenzione e cercare di ridurre il rischio di contagio in ambienti come per esempio i ristoranti, dove, per necessità, non si può indossare la mascherina mentre si mangia e si trascorre un po' di tempo con altre persone in un ambiente chiuso, per cui bisogna prestare particolare attenzione.
E' giusto sottolineare che rispetto alla prima fase, oggi ci sono sintomi più lievi, o quantomeno sembrerebbero più lievi, e ci sono più asintomatici?
R. - In parte sì, però bisogna tener conto che oggi osserviamo una popolazione un po' diversa, vale a dire che, nella prima fase dell'epidemia, i tamponi sono stati fatti prevalentemente, penso soprattutto alla Lombardia, alle persone che erano ricoverate in ospedale, il che vuol dire che si trattava di una popolazione estremamente selezionata, una popolazione che già aveva dei sintomi più importanti per cui in quel campione si vedeva una percentuale più elevata di persone con sintomi che erano ricoverate in ospedale, ricoverate in terapia intensiva. Oggi, fortunatamente, i tamponi vengono fatti a tutte le persone che hanno sintomi o che sono risultate, per esempio, positive al sierologico ma non hanno sintomi. Per cui stiamo osservando una popolazione un po' diversa ed è naturale vedere che c'è una percentuale di persone che non hanno sintomi, o hanno sintomi molto lievi, che è molto più alta rispetto a quella che si osservava nel mese di marzo. Però, a marzo, c'erano molte persone che pur avendo i sintomi erano al domicilio perché non c'era posto in ospedale, oppure perché i sintomi non erano così importanti da richiedere un ricovero e a queste persone non veniva fatto un tampone, per cui è possibile che anche a marzo ci fosse una percentuale più alta di asintomatici o con sintomi lievi che però non erano state misurate.
Le categorie, a rischio restano le stesse, quelle della prima fase dell'epidemia, o avete sviluppato un’idea diversa?
R. - No, i dati che sono stati raccolti e pubblicati nel frattempo, confermano le ipotesi iniziali per cui le persone che hanno un rischio maggiore di sviluppare forme gravi sono le persone anziane e le persone che hanno malattie croniche a carico dell'apparato cardiovascolare o dell'apparato respiratorio, persone che hanno il diabete, che sono obese. Queste sono un po' le categorie che hanno un rischio più elevato, rispetto alla popolazione generale, di contrarre forme gravi. C'è poi una parte di rischio, che non è ancora oggi conosciuta, che potrebbe essere legata alle caratteristiche individuali anche genetiche, per cui è possibile che alcune persone abbiano delle caratteristiche del loro sistema immunitario che le pone ad un rischio maggiore di avere forme gravi, anche in assenza di altre patologie.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità ci dice che c'è sicuramente una speranza che entro l'anno il vaccino possa esserci. Ma i vaccini che sono allo studio, oggi, stanno presentando una serie di sintomi collaterali che, in alcuni casi, hanno fatto interrompere la sperimentazione. Insomma, è possibile trarre le somme?
R. - Non ancora del tutto. Ci sono dei vaccini che sono già in una fase molto avanzata e alcuni studi dovrebbero avere già dei risultati preliminari nelle prossime settimane. Detto questo, è possibile che sulla base di questi risultati preliminari le agenzie regolatorie, per esempio l'Agenzia europea del farmaco, decidano che è possibile iniziare a dare un'autorizzazione a questi vaccini, diciamo una sorta di autorizzazione di emergenza, in attesa di ulteriori conferme, per consentire l'uso del vaccino in alcune categorie professionali che hanno un rischio maggiore di ammalarsi, per esempio i medici, gli operatori sanitari, le forze dell'ordine, i vigili del fuoco, categorie essenziali per la vita della comunità, per cui ci potrebbe essere un'autorizzazione che consente di usare il vaccino in alcune persone, in attesa di avere dati maggiori e più solidi. Per la popolazione in generale, credo che si dovrà attendere ancora qualche mese prima di avere a disposizione delle dosi di vaccino che consentano di estendere la vaccinazione a una fascia più ampia della popolazione. Bisognerà aspettare credo, verosimilmente, la metà dell'anno prossimo.
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