A 25 anni dagli accordi di Dayton, la pace fragile di una Bosnia divisa
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Il 21 novembre è sempre festa nazionale in Bosnia-Erzegovina, anche se sono ben pochi coloro che guardano a quel giorno di 25 anni fa con riconoscenza. Certo, nella città di Dayton nell’Ohio, con la benedizione del presidente statunitense Bill Clinton, quel giorno del 1995 si pose fine ad un conflitto che dal 6 aprile 1992 aveva causato più di 200 mila vittime, moltissime delle quali civili, 1 milione di profughi in fuga all’estero e traumi a tantissimi sopravvissuti. Numeri spaventosi, se si pensa che nel 1991 lo Stato dell’ex-Yugoslavia contava 4 milioni 354 mila abitanti.
Tre entità etniche sotto un governo centrale debole
Ma, come ricorda a Vatican News fra Ivan Sarcevic, 57enne docente di teologia pastorale all’Istituto teologico francescano di Sarajevo, “Dayton oggi è un freno allo sviluppo” perché ha messo insieme in un unico Paese, ma sotto un governo centrale troppo debole, tre frammenti di territorio etnicamente “puri”. Fra Ivan, minore francescano con studi alla Pontificia università salesiana, proprio negli anni del conflitto, sottolinea che, dopo il genocidio di Srebrenica del luglio dello stesso 1995 e la successiva, ennesima, granata sul mercato di Sarajevo, a Dayton “è stata premiata la pulizia etnica”.
Cristallizzati i confini creati dalla "pulizia etnica"
Perché se è vero che prima dell’offensiva “Deliberata Force” dell’aviazione Usa contro l’esercito serbo-bosniaco, e il successivo contrattacco dei soldati musulmani e croati, le truppe del generale Mladic avevano occupato il 70% della Bosnia-Erzegovina, a Dayton ne conservavano il 49%, nonostante i serbi fossero il 31 per cento della popolazione. E ottenevano uno Stato tutto per loro, la Repubblica Srpska, anche se unito con la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, nella quale i croati, 17% della popolazione, ottenevano il 25% del territorio e i musulmani, 44% degli abitanti, si dovevano accontentare del 26%.
Ogni otto mesi, cambio del presidente tra le tre etnie
Ma soprattutto la costituzione redatta a Dayton permette alla Repubblica Srpska di bloccare tutte le riforme necessarie perché la Bosnia possa aderire all’Unione Europea e alla Nato, soprattutto nell’ambito della democrazia e dello stato di diritto, ma anche della pubblica amministrazione. Per non parlare delle difficoltà nella lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata. Non aiuta di certo il progresso delle riforme l’alternanza alla guida del Paese, ogni 8 mesi, di uno dei tre membri della presidenza tripartita, in rappresentanza delle tre etnie.
A Sarajevo il capo della diplomazia europea Borrell
Il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, che ha assunto ieri la presidenza di turno dell'organo collegiale, e che esterna da tempo progetti secessionisti, accoglierà oggi a Sarajevo l'Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell, proprio in occasione dei 25 anni dagli accordi di Dayton. Il capo della diplomazia europea ribadirà l'appoggio alla prospettiva di integrazione europea del Paese balcanico, un processo che va avanti molto lentamente, proprio a causa dei persistenti contrasti fra le tre componenti etniche. Non aiutano poi certo la negazione del genocidio di Srebrenica e la glorificazione dei criminali di guerra già condannati, Radovan Karadzic e Ratko Mladic, ancora molto forti tra i serbo-bosniaci.
La festa nazionale di uno Stato diviso
Chiediamo a fra Ivan Sarcevic, di dirci quale Bosnia-Erzegovina celebra oggi questo momento comunque fondamentale della sua storia recente…
R. - La Bosnia ed Erzegovina festeggia l'accordo di Dayton come Stato diviso, è una festa aporetica perché ci sono due modelli di Stato: la Repubblica Serba come quasi uno stato monoetnico, organizzato in modo centralistico, con un capo, una fede, un popolo, si vede anche dal nome: Repubblica Serba. E poi dall'altra parte c'è un modello multiculturale, la Federazione della Bosnia ed Erzegovina dove ci sono due etnie: i musulmani di Bosnia e croati bosniaci ed erzegovini. Con questi due entità non si può fare uno Stato, ci manca unità statale. Poi ci sono tre popoli: musulmani bosniaci, croati cattolici e serbi ortodossi. E infine ci sono 10 cantoni e il distretto di Brcko.
Dayton per molti non è stato un buon accordo: ha creato tre frammenti di territori etnicamente quasi puri con un governo centrale estremamente debole. Lei che ne pensa?
R. - Dayton ha fermato la guerra però oggi è un freno alla prosperità, non è facile governare. Con Dayton è stata premiata la pulizia etnica. E’ stato un bene perché ha fermato la guerra e ha fermato i progetti di fare la Grande Serbia. Ma è un concetto sbagliato, esclusivamente etnico-territoriale, e così non si può andare avanti. Nel nazionalismo si rifugiano spesso i criminali anche di guerra e anche i politici disonesti, perché quando fanno solo i loro interessi, dicono: “ Io amo il mio popolo”. Si nascondono dietro l'amore per il proprio popolo e dietro la fede. Il secondo problema dell'accordo di Dayton è che ha impostato una certa protezione internazionale sul nostro Paese e dicono: “Noi facciamo tutto quello che decidono i popoli”. E’ una formula seducente, quasi diabolica. Perché i popoli si devono mettere d'accordo. Ma qual è il posto nel mondo dove avviene questo? In Bosnia la volontà del popolo è stata usurpata spesso anche da un clientelismo, da una oligarchia nata dopo il comunismo, che non ha una cultura politica.
Secondo lei cosa possono fare allora l’Unione Europea e la Comunità internazionale, per cambiare questo stato di cose?
R. – L’Europa ha i propri problemi, naturalmente, ma ha anche una morale di comodo. I leader europei non prendono sul serio il nostro problema, dicono: “Sono ai margini dell'Europa, non ci tocca tanto, non c'è guerra, non ci sono i profughi”. L’Europa non deve dare i soldi ai politici che sono criminali. E poi c'è sempre qualche risposta. Bisogna avere pazienza, anche perché questi problemi non si risolvono così facilmente. Certo che se si fa un accordo ingiusto cosa ci dobbiamo aspettare? Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale è stato detto: “Mai più la guerra!”. Però poi è venuta. L’Accordo di Dayton non è una “santità intoccabile”, si può e si deve cambiare. In quel tempo tutti dovevano fare certe concessioni, è naturale. Ma possono farle anche oggi.
Il rischio di una "Rs exit", una secessione della Repubblica Serba, è reale?
R. – Io penso che dobbiamo cercare un po' di democratizzare ogni entità, e poi anche cambiare il clima generale. In questo senso abbiamo responsabilità anche noi qui: in particolare i capi delle religioni, i sacerdoti e i francescani. Dobbiamo creare il clima di convivenza, una voglia di vivere insieme e così prepariamo il territorio per la politica, con una visione di convivenza.
Ma le religioni, le fedi possono giocare ancora un ruolo importante? Sono seguite dagli abitanti della Bosnia Erzegovina?
R. Penso di sì, qui ancora la gente crede abbastanza. Però abbiamo commesso molti errori durante la guerra. Non tutti, però la maggioranza gerarchica, non si è comportata bene, e questo vale per tutte le tre religioni o confessioni. Non abbiamo neanche fatto, come diceva Papa Giovanni Paolo II, la purificazione della memoria, e non abbiamo riconosciuto le nostre colpe, nel senso della responsabilità istituzionale, politica. La nostra colpa politica o morale è stata di aver spesso incoraggiato i nostri soldati a colpire anche gli innocenti. Questo non è bene, e non abbiamo purificato la nostra coscienza con un pentimento senza condizioni. Perché da noi si dice: “Sì, ti perdono, chiediamo il perdono”. Però sempre chiedendo qualcosa in cambio. Non è possibile così.
Nelle elezioni amministrative che sono in corso, i partiti nazionalisti stanno perdendo consensi. Forse il vento sta cambiando?
R. – Sì, è la mia speranza! Questo è vero, non è prima volta dopo la guerra. Significa che la gente, che è poca, perché tanti sono emigrati in Croazia, in Austria, in Germania, in America, sta cambiando idea. Comunque è un vento veramente buono, un soffio mite per noi. Però il problema sono le strutture peccaminose e criminali, non è facile. In particolare noto che il partito nazionalista musulmano bosniaco ha perso a Sarajevo, la capitale. E’ un segno perchè Sarajevo è veramente una città multiculturale. Poi Dodik ha perso a Banja Luka. Spero anche che a Mostar perdano tutte e due i partiti, il partito bosniaco musulmano, Sda e il partito cattolico della democrazia, Hdz, che tengono in prigione dopo la guerra tutti i cittadini di quella bellissima città. Non è facile, però è una speranza.
Ci sono segni di convivenza, dove si cerca di ricostruire una convivenza che in passato c'è stata, anche se era forse un po' forzata?
R. – C’è sempre la convivenza tra i vicini di casa, che vivono insieme, naturalmente, e questo è sempre un bel segno perché la Bosnia ed Erzegovina non è una somma matematica, ma porta anche un riflesso, durante tutta la sua storia, di un certo tratto spirituale della convivenza, che rimane sempre. Per questo i serbi e anche gli altri non hanno potuto distruggere questo Paese, proprio per questo strato, che non si vede tanto, di convivenza, di rispetto dell'altro, di altruismo. La capacità di guardare la situazione con gli occhi dell'altro, c'è sempre. Naturalmente adesso questo ci manca, perché le forze distruttive o politiche hanno preso il potere, ma anche nel resto del mondo, penso. Per questo il problema è anche doppio per noi: perché il mondo si trova in un periodo molto difficile, anche col Covid-19.
Ci sono giovani, magari proprio quelli che non hanno sentimenti nazionalistici, che spesso emigrano. E questo danneggia la Bosnia, sicuramente…
R. - Emigrano quelli che sono umiliati, che non possono sopportare che qualcuno li umilii. Ma d'altra parte io sono anche un po' scettico, perché anche tra i giovani ci sono tanti che sono nazionalisti. Tanti giovani che vogliono avere le soluzioni pronte, facilissime, perché ogni ideologia totalitaria è così. Non devi pensare tanto. Perché non è facile essere un uomo integrale, un uomo non perfetto, ma che vuol essere protagonista delle proprie decisioni. Per questo tanti di quelli che hanno una cultura, che hanno finito l’università, i nostri giovani medici, oppure anche certi sacerdoti che hanno finito lo studio teologico, emigrano. Non possono rimanere qua, perché veramente la situazione non è facile. E io non dico a nessuno “devi restare”. Mi dispiace tanto. Ma noi abbiamo un grande bisogno di gente integrale spiritualmente: non quelli che fanno spettacoli con la fede, o un ritualismo vuoto. No, ma gente di convivenza, che la vive ogni giorno con i vicini che non sono della stessa religione, della stessa nazionalità. Non un atteggiamento superficiale, ma vero, che viene dalla fede, dal di dentro.
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