Ultimatum in Etiopia: appello al dialogo dai vescovi eritrei
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Il primo ministro, Abiy Ahmed, ha ordinato all'esercito federale di lanciare "l'offensiva finale" contro le forze separatiste della regione autonoma del Tigray, dove da settimane è in corso un conflitto armato. "L'esercito - ha dichiarato Ahmed, Nobel per la Pace 2019 - ha ricevuto l'ordine di intervenire sul capoluogo Mekele (Macallè) contro le forze armate ribelli tigrine che fanno capo al Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tpfl). "Si farà di tutto - assicura il capo del governo sul suo profilo Facebook - per proteggere i civili" e "perché la città di Mekele non subisca gravi danni". Ieri il primo ministro etiope aveva fatto sapere di non accettare ingerenze nella gestione del braccio di ferro con la regione del Tigray.
L'esercito federale è alle porte di Makallè, capitale della regione più a nord dell'Etiopia. Abitata da 500.000 persone è sede del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf), partito di governo locale. E' scaduto l'ultimatum di 72 ore per la resa intimato domenica dalle autorità di Addis Abeba, ma il leader locale risponde che la sua gente è "pronta a morire" in difesa del proprio territorio. Il conflitto è maturato nei mesi scorsi, da quando, a settembre, il partito al governo del Tigray (Tigray People's Liberation Front) ha organizzato le elezioni nella regione, contro il parere del governo federale. Centinaia, finora, le vittime degli scontri e migliaia gli sfollati, rifugiatisi nel vicino Sudan.
Per capire l'origine e la gravità di questo conflitto, abbiamo intervistato l'africanista Anna Bono:
La professoressa Bono inizia la sua analisi ricordando le origini del conflitto: a settembre nella regione del Tigray si sono svolte le elezioni che il governo federale aveva chiesto di sospendere per via dell'emergenza pandemia. Una scusa, secondo il gruppo etnico dei tigrini perchè in realtà non si vuole concedere autonomia al potere locale. Bono spiega che trattandosi di una federazione di nove regioni in realtà la questione non nasce intorno all'autonomia locale ma ha un altro significato. Fino all'arrivo al governo del primo ministro Ahmed il gruppo del Tigray ha tenuto il controllo del potere centrale e dunque di questo si tratta: la contesa nasce intorno a questa posta in gioco.
L'emergenza umanitaria
Bono si sofferma sull'allarme lanciato dall'Unicef per 2,3 milioni di bambini a rischio nella regione, per poi spiegare che normalmente si tratta di territori che si reggono sull'assistenza delle organizzazioni internazionali e dunque è particolarmente grave che di fronte all'imminenza dell'offensiva e già in presenza di settimane di scontri, il personale di queste organizzazioni si sia dovuto allontare. La studiosa ricorda anche che si trattava delle uniche fonti di informazioni per il mondo occidentale.
Un conflitto polveriera
E' evidente - sottolinea Bono - la ripercussione immediata sull'equilibrio del Sudan che già dal 4 novembre ha ricevuto migliaia di persone in fuga dal Tigray, così come sono immediate le preocccuapazioni per le possibili implicazioni dell'Eritrea che è stata in conflitto con l'Etiopia e che confina con il TIgray. E poi c'è un'altra indicazione importante nelle parole di Bono: bisogna guardare alla Somalia perché il Paese riesce a tenere testa agli attacchi e alle ingerenze degli jihadisti perché ha il pieno appoggio dell'Unione africana, che ha la sua sede principale ad Addis Abeba, e dell'Etiopia. Una situazione di destabilizzazione dell'area potrebbe rafforzare il peso dei terroristi.
Il tentativo dell'Onu
Alla riunione d'urgenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu i Paesi africani hanno fatto un passo indietro spiegando di voler concedere più tempo agli sforzi diplomatici dell'Unione africana. In molti hanno espresso la preoccupazione per una crisi umanitaria e la destabilizzazione del Corno d'Africa.
L'appello dei vescovi eritrei
Dalla vicina Eritrea arriva l'appello della Conferenza episcopale: i presuli esprimono profonda tristezza e ricordano che “in guerra perdono tutti”. Ribadiscono che “la guerra è contro la vita e contro lo sviluppo” perché “uccide, mutila, distrugge e semina odio tra la gente”. Nella nota dei vescovi si legge inoltre che la guerra non ha un vero significato ed è sempre ingiusta", perché “distrugge i quattro pilastri della pace, ossia verità, giustizia, amore e libertà”.
Non c'è pace senza verità e giustizia
La verità è essenziale alla riconciliazione, spiegano i presuli, perché “all’interno della società non assicura solo i diritti individuali, ma salvaguarda il bene comune proteggendo i diritti degli altri come fondamento della pace”. Al contempo, “la giustizia garantisce i diritti di tutti, incentivando il progresso per costruire la pace”, mentre “l’amore infonde empatia per i bisogni del prossimo, creando reciprocità”. Infine, la libertà “permette alle persone di contribuire allo sviluppo della pace”. In quest’ottica, i presuli “in nome di Dio e per il bene dei popoli”, chiedono “l’immediata cessazione delle ostilità” ed invitano le parti in causa “a risolvere il conflitto attraverso il dialogo”. La dichiarazione dei vescovi si conclude con l’esortazione rivolta a “clero, religiosi e fedeli” affinché “si impegnino nella preghiera” per la pace.
Ultimo aggiornamento alle ore 14:28
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