La montagna di don Erminio, prete trentino ancora alpinista a 87 anni
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Don Erminio Vanzetta, classe 1933, trentino doc di Ziano di Fiemme, a 87 anni compiuti a marzo, celebra ancora messa come collaboratore pastorale, dicesi cappellano, nelle parrocchie di Mazzin, Pera, Pozza, Soraga e Vigo di Fassa. Nelle ultime due è stato parroco fino al 2014, ma non ha certo lasciato la passione per Cristo, che lo ha portato in seminario a soli 12 anni. E non ha ancora rinunciato all’altra sua grande passione, la montagna, iniziata coi primi tiri di corda insieme al fratello sulla guglia calcarea del Pollice, sopra Ziano, dopo aver pascolato le pecore. Perché ci racconta che anche quest’estate è salito fino ai 2646 metri di Cima Dodici, dopo aver scalato, quando era più giovane, le Torri del Vajolet, il Catinaccio e il passo Pordoi.
Sacerdote nel Soccorso Alpino dal 1963 al 2004
Ma dal 2004 ha appeso al chiodo la divisa del Soccorso Alpino, indossata per più di 40 anni, da quel 1963, quando, cappellano a Vigo di Fassa, accetta l’invito del capo del Soccorso della Val di Fassa, e col consenso del parroco, prende la tessera n. 931. “Reverendo, come tutti sanno non sono proprio un basabanchi - gli disse il capo - ma un prete nel nostro Soccorso alpino ci starebbe bene”. Da parroco in Primiero, nel 1975 viene nominato capo della locale stazione del Soccorso, e la canonica di Tonadico è anche la sede del gruppo e magazzino per l’attrezzatura. Anche il numero di telefono è lo stesso: risponde sempre don Erminio, che cura le anime a tempo pieno, ma che se serve si cura anche dei corpi da salvare o da riportare pietosamente a valle.
Quella volta che l’elicottero è precipitato
Riuscirà a tenere il doppio incarico fino al 1989, e fino al 2004 resterà come vice-capo. In tanti anni sulle cime, salito con le sue gambe per fare da guida ad altri o portato su con l’elicottero del soccorso, che un giorno si è anche schiantato poco dopo che don Erminio era sceso, (e per questo si ritiene un “mezzo miracolato”) il nostro “parroco alpinista” ha contato tutti i corpi recuperati senza vita, 52. Le vite salvate, per fortuna, sono molte di più, e ne ha perso il conto.
La triste storia di Johann, che “mi morì tra le braccia”
Si commuove nel raccontare di Johann, ventiduenne tedesco precipitato dalla Torre Finestra del Catinaccio a metà degli anni ‘70. “Quando lo raggiunsi era spacciato – ha raccontato in un’intervista di 5 anni fa a “Famiglia Cristiana” - riuscii a impartirgli l’estrema unzione e mi morì tra le braccia. L’anno dopo mi si presentarono davanti i suoi genitori. ‘Grazie don Erminio. L’unica consolazione è sapere che nostro figlio è morto con un prete accanto’, mi dissero e mi bastò”.
Il salvataggio del veneziano che ha lasciato la ferrata
Delle storie a lieto fine c'è anche un salvataggio dei primi anni ’80, sulle Pale di San Martino. “Un escursionista veneziano in ferrata aveva voluto staccarsi dal cavo e proseguire arrampicando – ha raccontato sempre al settimanale dei Paolini - Cadde ma, per sua fortuna, l’impatto fu attutito da una lastra di roccia assai inclinata che lo fece scivolare. Lo recuperammo col volto sfigurato e lo portammo al rifugio. Dopo tanti anni mi viene a trovare in sacrestia un bel giovanotto, per me sconosciuto: ‘sono quello che s’era spappolato la faccia’, mi disse. Volevo ringraziarla assieme ai miei genitori’”. Tra i tanti premi ricevuti, don Erminio ricorda soprattutto la medaglia al valore e il diploma di membro dell’”Ordine del Cardo”, ordine cavalleresco scozzese che premia chi ha compiuto atti significativi di solidarietà in montagna.
Schivato un fulmine con l’arcivescovo Bressan
E’ andata bene anche una delle ultime salite come guida, due estati fa, accompagnando l’arcivescovo emerito di Trento, monsignor Luigi Bressan. “Siamo arrivati a Punta Penìa, in cima alla Marmolada, a 3340 metri — ha spiegato don Vanzetta al “Corriere della Sera” - e il monsignore voleva arrivare alla croce di ferro che spunta sull’altura. Ma io sentivo i capelli elettrici, non mi fidavo”. Sentiva il fulmine in arrivo, con l’esperienza di più di 70 anni sulle vette, e così quel giorno riuscì a dissuadere l’arcivescovo appena in tempo. "Lo trascinai giù – ha raccontato – e meno male: il fulmine arrivò poco dopo, fortissimo, danneggiando gli impianti invernali intorno".
La testimonianza d’amore per i monti su “Strada facendo”
Oggi, dopo aver compiuto 87 anni il 29 marzo scorso, don Erminio ancora mette ai piedi gli sci di fondo e arrampica, quando non confessa in valle e dice messa a Vigo di Fassa. Parliamo con lui nella puntata di “Strada facendo”, il programma “in viaggio con la radio” in onda ogni sabato dalle 12.39 alle 13.00 su Radio Vaticana, dedicata alle giornate del turismo montano, quest’anno online dal 10 al 13 novembre. (Ascolta qui tutta la puntata)
Don Erminio, lei in montagna ne ha viste sicuramente tante, da scalatore, guida e responsabile del soccorso alpino a Primiero, ma quest'estate com'è andata sui sentieri e soprattutto nei rifugi? Ha visto tutti con le mascherine e distanziati o erano vicini e senza mascherina come nelle spiagge?
R. – No, ho visto genitori con i loro figli, avevano la mascherina e pretendevano che l'avessero anche i loro piccoli. Durante tutta l'estate abbiamo avuto un sacco di turisti, italiani più che altro, tantissima gente però molto prudente, sia sulla strada che in montagna. Vengono per avere tranquillità, con i loro figli, è bello vederli camminare per sentieri, si danno la mano, si fermano, parlano tra loro. Io non posso fare un confronto col mare perché intanto ho paura dell'acqua e poi non ci sono mai stato. Tuttavia so che in montagna la gente si ritrova.
Lei fa ancora sci di fondo. I suoi sci sono pronti per questo inverno? Come la vede la stagione? Si potrà sciare?
R. – Non so come saranno le piste di discesa, siccome è lì che i gestori degli impianti guadagnano da vivere. Invece le piste di fondo non sono percorse da tanta gente, perché nel fondo si fa troppa fatica. Qui per fortuna viene sempre tenuta aperta la pista di fondo della Marcialonga e quindi ci sono tante persone che si allenano per riuscire ad arrivare a Cavalese. Anch'io prendo gli sci di fondo qui a Vigo, raggiungo Canazei e poi ritorno… faccio una ventina di chilometri.
Lei lo ha fatto anche in gara questo percorso, perché ha fatto la Marcialonga, vero?
R. - Sì, l’ho fatta parecchie volte la Marcialonga. Vale la pena, anche per l’atmosfera, l'amicizia e poi io sono della Val di Fiemme e per noi il fondo è lo sport preferito. Tutti ti salutano… veramente vale la pena farla, quella gara. Però adesso che sono troppo vecchio, non è più giusto che la faccia.
Da sciatore di discesa posso dire che lo sci di fondo ti avvicina di più alla magia del bosco, sei da solo, devi anche fare fatica… diciamo che è anche più meditativo rispetto alla discesa, dove spesso c’è troppa gente...
R. – Sì, in discesa si parte e si arriva subito. E invece nel fondo si è soli, specialmente in salita si fa fatica, e si cerca di non parlare con nessuno, però è bello pensare a tutto il mondo che ci circonda… Il fondo è bello!
Lei ha anche portato tanta gente in montagna con lei come guida, anche vescovi e cardinali. E’ vero che in alto si prega meglio? Sarà anche perché siamo più vicini a Dio e vediamo meglio le bellezze che lui ha creato?
R. – In montagna, intanto, la gente si sente anche più vicina al prete, e allora alle volte mi chiedono di far da prete, oltre che guidarli. Poi si parla del più e del meno, ma sicuramente si pensa, prima di tutto al Creatore.
Lei ha raccontato che non ricorda quante persone ha salvato in montagna, ma non dimentica le 52 che non ce l'hanno fatta. La montagna è bella, ma anche pericolosa… col turismo di massa è aumentata anche l'imprudenza e la faciloneria di chi sale sui sentieri con scarpe da ginnastica e bermuda?
R. – Certe volte la colpa è anche di chi è troppo superficiale, a voler raggiungere, magari, cime con un’attrezzatura non adatta. Questo è vero. Però sulle vie difficili, di sesto grado e oltre, sono pochissime le persone che muoiono. Generalmente le disgrazie succedono dove non c'è più di tanta difficoltà. Secondo la mia esperienza, quando la gente rientra a valle, perché è contenta di aver raggiunto la cima o il rifugio, non sta molto attenta, le gambe non rispondono più come in salita ed è molto facile che poi qualcuno finisca per precipitare anche su un sentiero facile, scivola e succedono le disgrazie…
Don Erminio, vorrei che per concludere ci regalasse la preghiera che lei fa quando arriva in cima, magari silenziosa perché il fiato è quello che è… In cima che cosa dice al Signore per ringraziarlo?
R. - Adesso che salgo da solo mi prendo dietro il breviario e recito il Rosario, ma quando ero più giovane e andavo con la gente, con i “clienti” che si affidavano alla mia corda, era molto facile dire una preghiera, per ricordare i morti della montagna e raccomandare tutto a Dio. E poi anche le persone che mi accompagnavano, mi parlavano della loro famiglia, delle loro difficoltà, e io avevo modo di incoraggiarli non soltanto perché potessero camminare più svelti in montagna, ma perché potessero camminare anche nella vita di tutti i giorni.
L'ho sentita commuoversi quando parlava delle persone morte in montagna. Lei ha lasciato qualche amico sulle vette?
R. – Sì, quest’estate ho raggiunto la Cima Dodici, 2646 metri, e poi ho visto che c'è un sentiero intitolato a Gadotti (Franco, alpinista di Trento, caduto al Campanile Pradidali, sulle Pale di San Martino, nel luglio 1976 a 21 anni, n.d.r.). Mi ricordo che l'avevo raccolto quando era caduto in Primiero su una delle cime e quando ho annunciato a sua mamma e al papà questa disgrazia, la mamma aveva detto: “Adesso non ci sarà più nessuno che si ricorderà del mio Franco Gadotti”. Allora le ho dato questo consiglio: “Se lei ha qualche soldo in più lo dia alla Sat (Società alpina trentina, n.d.r.) per intitolare un sentiero a suo figlio. E ora ho trovato che per raggiungere Cima Dodici, il sentiero che parte da Pozza di Fassa, e che alla fine è una via ferrata, si chiama proprio sentiero “Franco Gadotti”.
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