Mozambico, la fuga di migliaia di sfollati a Capo Delgado
Antonella Palermo – Città del Vaticano
E' ancora una volta il vescovo di Pemba, il brasiliano monsignor Luis Fernando Lisboa, a denunciare a livello internazionale l'esodo di migliaia di persone che in barca lasciano le proprie abitazioni sotto la minaccia e le devastazioni di gruppi armati estremisti islamici. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati prevede che entro dicembre, nella provincia di Nampula, gli sfollati diventeranno 40mila. Da Maxixe, nella provincia di Inhambane, padre Roberto Maver, Superiore Regionale della Congregazione della Sacra Famiglia di Bergamo spiega cosa c'è dietro i conflitti, sebbene la comunicazione interna nel Paese è pressoché inesistente:
Le risorse del territorio
"La provincia di Capo Delgado è una delle regioni più ricche del Paese: per le pietre preziose, i rubini di Montepuez, e per il gas a Palma, una delle città più a nord. I proventi derivanti dai giacimenti sono però soprattutto nelle mani di potentati locali o multinazionali che sfruttano il territorio", spiega il religioso. L'economia familiare è basata sulla coltivazione degli orti e sulla pesca, molto fruttuosa. Negli ultimi mesi la situazione è diventata drammatica: le popolazioni, soprattutto delle isole Quirimbas, sono costrette a lasciare la propria terra e arrivano a Pemba, la capitale.
Gli interessi geopolitici in gioco
A Capo Delgado i motivi di tensione si sono stratificati: oltre a conflitti locali endemici, c'è l'aspetto che ha a che fare con l'estrazione dei rubini e quello che riguarda l'insorgere del gruppo armato islamico radicale. "Con l'arrivo nel 2017 dell'impresa appaltatrice e con la necessità di legalizzare l'attività estrattiva, si è creato un antagonismo con i ricercatori clandestini", sottolinea ancora padre Maver. La polizia ingaggiata ha cercato di sedare questo tipo di conflitto. "Il gruppo armato che sta creando problemi dal 2017, e poi nel 2019 e quest'anno, quando è esploso in maniera più evidente, all'inizio si scontrava solo con le forze armate mozambicane, con il tempo la violenza si è indirizzata alla popolazione locale che appunto è costretta a fuggire. Le forze di difesa vogliono garantire la pace per poter ovviamente assicurare la produttività delle economie della zona. Purtroppo non sempre è facile e l'instabilità è enorme".
Giovani costretti ad arruolarsi, non si sa che fine fanno
"Gli interessi del gruppo armato sono ancora più difficili da capire", dice Maver. "Siamo portati a pensare che vogliano creare uno Stato dentro uno Stato". Sono responsabili anche del rapimento, di recente, di due suore, poi liberate, e della conquista della città portuale di Mocimboa da Praia. "Il fatto di essere riusciti ad accaparrarsi un porto che permetta l'arrivo dall'esterno di persone o di altro materiale è preoccupante – lamenta Maver - e lo Stato mozambicano sta cercando di fronteggiarli ma si trova impreparato. Forse – suppone - non vuole ricorrere ad un intervento internazionale per dimostrare la propria forza e autonomia". I gruppi estremisti, ben organizzati e con mezzi e armi molto sofisticate, fanno leva sul disagio dei giovani mozambicani per arruolarli e creare una rete di informatori nei villaggi, in cambio di denaro. Costretti a partire, molti non tornano. In questi giorni a Maxixe si sono celebrati tre funerali con casse vuote, perché nemmeno i corpi vengono rispediti ai propri familiari.
Gli aiuti agli sfollati e i timori dei missionari
Anche il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite sta distribuendo alimenti nei diversi distretti della provincia. La Caritas diocesana di Nacala, di cui si occupa la lodigiana Elena Gaboardi, è presa d’assalto ogni giorno da centinaia di persone provenienti da Cabo Delgado. Da luglio ad oggi sono 600 kit alimentari al mese. "Si contano circa 300mila sfollati in precarietà assoluta", racconta ancora il missionario. "In città trovano condizioni non molto migliori e la gente offre quel poco che ha. Gli aiuti offerti dalle istituzioni private, dalla Caritas e dalla Chiesa locale sono insufficienti a garantire una condizione di vita accettabile". L'area interessata dai conflitti è problematica anche per le missioni. I religiosi non hanno voluto lasciare la popolazione ma hanno voluto restare accanto a chi è nella sofferenza. Ma quando la situazione diventava più pericolosa ha prevalso la prudenza e si sono ritirati in comunità più tranquille mettendosi al sicuro. "Il vescovo sta accompagnando da vicino chi è vittima di questa fuga forzata – conclude Maver - e i missionari stessi nella speranza si superi questa prova dura".
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui