Nigeria: Boko Haram continua a spargere terrore tra la popolazione
Marina Tomarro - Città del Vaticano
Non pagare un’imposta ai jihadisti o non passare informazioni all’esercito. Bastano queste due accuse per far scatenare attacchi feroci contro i civili, come quello di sabato nella risaia del villaggio di Koshobe, a pochi chilometri dalla capitale del Borno Maiduguri, costato la vita a 110 uomini e donne che lavoravano nel campo di riso. L’attacco è avvenuto proprio nel giorno delle elezioni locali nello Stato del Borno. Il presidente della Nigeria Buhari ha condannato la strage e ha chiesto di dislocare un maggior numero di militari per proteggere i contadini della zona.
Una corruzione che impedisce lo sviluppo del Paese
“Ad oggi le vittime accertate sono oltre 110 - spiega padre Filippo Ivardi, direttore del periodico dei missionari comboniani 'Nigrizia'- però ci sono diverse persone disperse, si parla di donne rapite e non c'è ancora nessuna rivendicazione, ma i due attori jihadisti operano di più della Regione sono ovviamente Boko Haram, ma anche l’Iswap lo Stato islamico nell'Africa dell'Ovest. Ovviamente questo tipo di interventi è possibile solo se ci sono forti convivenze con l'esercito, con le autorità locali e con lo Stato, questo è sicuramente quello che accade perché ormai sono ripetuti da tanti anni. Dal 2009 in questa regione di Borno, sono 36 mila i morti e due milioni di sfollati. È chiaro che per poter far fronte a questo sistema ormai collaudato, che è diventato anche un modo per portare a casa interessi economici importanti legati al traffico delle armi, della droga, e dei migranti, l'impatto più importante è quello di incidere sul cambiamento politico, visto che è uno Stato profondamente corrotto. Del resto si è visto anche dalle manifestazioni di ottobre di tanti giovani che chiedono un cambiamento radicale".
Ma come vivono le popolazioni in questo momento?
R - A nord est della Nigeria le popolazioni vivono nel terrore. Spesso abbandonate a loro stesse vivendo questa situazione molto critica, perché se restano a casa non possono andare nei campi per coltivare. Del resto quest'ultimo attacco è stato fatto proprio contro persone che stavano coltivando il riso. Se escono sono soggette ad attacchi sempre ripetuti, ormai settimanali di questi gruppi jihadisti, quindi la popolazione vive nel terrore, e molti hanno lasciato questa zona, sono scappati anche in altri paesi attorno al lago Ciad. Le autorità, sono molto corrotte, anche le forze dell'Esercito in qualche modo non riescono a far fronte a questo sistema. C'è la forza multinazionale anche dei 5 Paesi del G5 Sahel dispiegata in tutta quest'area però nonostante alcuni risultati importanti tenuti nei confronti di questo jihadismo, non si è arrivati sicuramente a debellarlo, e ormai è diventato molto radicato nella società all'interno anche di quelle che sono le autorità locali.
Qual è il supporto della Chiesa? In che modo cerca di portare aiuto?
R- La Chiesa è ben presente in queste aree, anche se sono in grande maggioranza musulmana. È presente con le proprie Caritas a sostegno delle famiglie, delle vittime. Ci sono vari interventi di vescovi molto attenti a questo problema. A livello però del Paese possiamo dire che la Conferenza Episcopale non si è espressa in modo unanime anche di fronte a queste rivendicazioni dei giovani di ottobre, che è stata una delle manifestazioni più imponenti degli ultimi anni. Ci sono alcune figure che sono più vicine alle popolazioni, in particolare alcuni parroci di alcune comunità cristiane, ma è difficile poter in qualche modo vedere a livello di tutto il Paese una presa di posizione forte ed unita.
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