25 anni dopo, la testimonianza di pace di Yitzhak Rabin
Francesca Sabatinelli - Città del Vaticano
Erano le 21.30 e l’attentatore, l’estremista ebreo, Yigal Amir colpì Yitzhak Rabin al termine di una manifestazione a favore degli accordi di Oslo, raggiunti nel 1993 tra Israele e i palestinesi di Arafat. La piazza dell’omicidio, allora intitolata ai Re di Israele, da quel momento venne chiamata piazza Rabin, in memoria del coraggio di un militare prima e un politico dopo, che aveva aperto ai negoziati con i palestinesi, nonostante la forte opposizione della destra che avviò manifestazioni di protesta contro Rabin e la sua politica di pace. Con Shimon Peres e Yasser Arafat, presidente di quella che poi sarebbe stata l’Autorità Nazionale Palestinese, Yitzhak Rabin, nel 1994, fu insignito del Nobel per la pace.
Il dolore di una testimone
Un chiaro ricordo dei drammatici momenti dell’attentato lo ha Manuela Dviri, scrittrice e giornalista italiana, naturalizzata israeliana, che porta avanti con tenacia la sua campagna a favore della vita e contro la guerra. Insignita di numerosi riconoscimenti letterari e giornalistici, nonché per il pacifismo, la Dviri ha all’attivo diversi progetti umanitari, anche in collaborazione con i palestinesi, come “Saving Children” con organizzazioni mediche e pediatri israeliani e palestinesi.
R. – In quell'attimo in cui annunciarono la morte di Rabin, ricordo di essermi detta: Rabin è morto per la pace, adesso trionferà la pace. Ne ero sicurissima! Anche perché avevo visto quei ragazzi, giovanissimi, nella piazza Rabin, che piangevano, le candele accese per tutta la piazza, tutti disperati, i ministri, Peres, i generali, ho visto piangere persone che non mi sarei mai immaginata di veder piangere, e mi sono detta: di sicuro la pace trionferà, andremo avanti e questo sarà il modo di ricordare Rabin. E invece nulla di questo è successo, perché poi alla fine ha vinto il male, perché il progetto di pace si è bloccato lì.
Si può davvero dire che quei colpi di pistola alla schiena sparati da Yigal Amir cambiarono la storia …
R. – Cambiarono la storia in male, perché Peres, che alcuni mesi dopo si presentò alle elezioni, le perse. E da allora, i rappresentanti della pace di quegli anni, tranne per un breve periodo Ehud Barak (Primo ministro di Israele dal maggio 1999 al marzo 2001 ndr), non sono più tornati al governo e, devo dire, che è stata una grossa sconfitta. Per me, sinonimo della pace è la vita, pace è vita, pace è il bene, e invece c'è chi, anche oggi, dice ‘i delinquenti di Oslo’, così come dicevano di Rabin ‘il delinquente di Oslo’ e di Oslo, oggi, praticamente, non se ne parla più. E’ molto triste ammettere che ha vinto il male e non il bene. Per me la pace è il bene.
Lei quali aggettivi utilizzerebbe per descrivere Yitzhak Rabin?
R. – Era un uomo molto particolare, era un ufficiale. E’ stato capo di stato maggiore, capiva benissimo la guerra, ma era anche un timido, un timido che faceva fatica a chiacchierare con la gente, però era molto simpatico, in realtà, quando ci chiacchieravi insieme. I mesi che hanno preceduto la sua uccisione, girava moltissimo per il Paese per sapere, per capire, cosa fosse necessario fare, e girava con pochissima sicurezza. Solo nelle ultime settimane si era accorto che, in questi giri, veniva insultato, veniva attaccato violentemente. Circolavano sue foto vestito da nazista o da Arafat. Ad un certo punto chiese di aumentare la sicurezza intorno a lui, quindi capì di essere in pericolo, certissimo però - questo lo dice una persona che era lì, che lavorava con lui - che non avrebbe mai potuto essere toccato da un altro ebreo, perché non è possibile che un ebreo uccida un altro ebreo, che un israeliano uccida un altro israeliano, invece è stato proprio così, con tre colpi alla schiena. In realtà Yigal Amir voleva uccidere anche Peres, che veniva da anni di rapporti molto difficili con Rabin. Ricordo il suo viso in quegli istanti, era grigio, era come se un pezzo di lui fosse stato ucciso insieme a Rabin, contro il quale aveva lottato, in passato, ma col quale, nel tempo, era diventato molto amico. E’ un pezzo di storia che ricorderò sempre.
Il trauma di questa morte che cosa generò nella società israeliana di allora e oggi con quali sentimenti Israele fa i conti?
R. – Secondo me Israele non ha fatto abbastanza i conti, e questa forse è la cosa più difficile da dire, ma non ha fatto i conti fino in fondo. Yigal Amir è stato punito, certamente, è in prigione, ma Oslo è addormentato, il progetto di pace è quasi inesistente, il che vuol dire che non abbiamo fatto i conti, lo dico con grande tristezza, ma è la verità.
Il presidente israeliano Rivlin, nella commemorazione di Rabin di qualche anno fa, disse che la generazione testimone di quell'omicidio non avrebbe mai più dimenticato, non avrebbe più perdonato, e che non si sarebbe mai più perdonata. Una generazione intera che vive con un peso su di sé, forse. E invece i giovani? In loro la testimonianza di Rabin esiste?
R. – Fino ad un certo punto, perché dipende cosa sono i giovani. Io ricordo che immediatamente dopo l'uccisione di Rabin, i giovani, anche giovanissimi, tornarono in piazza dove accesero candele per giorni e giorni, piangendo. Quei ragazzi lì, oggi hanno 40 anni, e sono i più giovani, probabilmente quelli che erano in piazza ricordano. Quelli che sono nati dopo hanno invece perso Rabin, e la capacità di capire cos'erano quegli anni, sono stati anni difficili gli anni del processo di pace, però anni importanti che, chi è molto giovane, non ha vissuto e quindi in qualche modo di pace non ne parla. Credo che il vero trauma sia di coloro che l'hanno vissuto, ma di una parte del Paese, per circa la metà degli israeliani, è un trauma, per l'altra metà no, piuttosto è un dire è un dire: “fortuna che hanno bloccato Oslo”. E’ la verità, bisogna ammetterlo, c’è quella metà di israeliani che vota contro qualsiasi cosa che ricordi la pace, contro qualsiasi cosa che possa far ripartire un processo di pace, e c’è quella che, invece, continua a credere in quello in cui si credeva in quegli anni.
Un esponente politico israeliano ha detto che l'eredità di Rabin è la fiducia …
R. – E’ vero, fiducia ma anche coraggio. Era un capo di stato maggiore che sapeva benissimo cosa fossero le guerre e che ha avuto il coraggio di dire: “Noi le guerre le sappiamo fare. Siamo bravissimi a farle, però io preferisco non farle, preferisco rischiare con la pace”, perché la pace è un rischio, può anche non funzionare. Yitzhak Rabin ha rischiato, ha voluto rischiare, e ha pagato con la vita.
Rabin poco più di un anno prima della sua uccisione era stato a colloquio con Giovanni Paolo II, in Vaticano. Gli osservatori rilevarono che tra i due fu molto forte l'aspetto umano. Rabin, inoltre, era convinto che il ruolo della Santa Sede avrebbe avuto una rilevanza sempre maggiore nel processo di pace in Medio Oriente …
R. – L’importanza di quei momenti è che in realtà poi sono continuati, seppur con altre persone. Nella Piazza Rabin, durante la dimostrazione, la persona che era più vicina a Rabin, era Shimon Peres. I rapporti con la Santa Sede sono continuati molto bene proprio attraverso Peres che è stato, tra l’altro, anche ministro, premier e Presidente dello Stato di Israele. A uno di questi incontri, ho avuto anche l'onore di partecipare, ed è stato un incontro di pace bellissimo, nei giardini del Vaticano, (Invocazione per la pace, 8 giugno 2014 alla presenza anche del patriarca Bartolomeo I) è stata per me una grandissima gioia esserci, c’erano Abu Mazen, Shimon Peres, e Papa Francesco.
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