Il 'limbo' balcanico e le cicatrici antiche di chi è in fuga
Antonella Palermo – Città del Vaticano
In piena pandemia Covid, nella regione balcanica si aggrava l’emergenza umanitaria per i migranti. Dopo il vasto incendio che nei giorni scorsi ha devastato il campo provvisorio per rifugiati a Lipa, nel nord-ovest della Bosnia, “quella nei Balcani, al confine con l’Italia, è una situazione in cui si stanno calpestando i diritti umani ai danni di persone in fuga da contesti di guerra e di profonda crisi, come Iraq, Siria e Turchia”. E’ quanto si legge in un comunicato del Centro Astalli, il Servizio dei Gesuiti per i rifugiati, che riprende un documento analogo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e che si appella all’Unione Europea, affinché attivi vie legali di accesso, e soluzioni per la gestione controllata e sicura degli ingressi di migranti in Europa.
Francesca Mannocchi, giornalista e documentarista, è appena rientrata dalla Bosnia per un reportage sulla condizione dei camminanti le cui speranze di raggiungere l’Europa in questo limbo si arenano.
La stanzialità balcanica
E’ una rotta che vede meno la presenza di donne e bambini, ma pur sempre è scenario di desolazione, dolore, vita allo stremo. Ci si chiede se non sia fuorviante parlare di ‘rotta balcanica’. “Noi chiamiamo rotta balcanica quella che avrebbe dovuto essere una rotta europea - spiega Mannocchi – e in realtà esiste perché i confini sono stati chiusi nel 2016. Quella che di fatto è diventata una stanzialità balcanica è accaduta perché la crisi migratoria del 2015 ha prodotto un ripensamento di Schengen, ovvero dei principi fondamentali del continente europeo”.
Una storia che si ripete
Francesca Mannocchi continua a raccontare cicatrici antiche. Tali sono infatti, stratificate: sono quelle da cui fuggono - guerre, situazioni di estrema povertà o di minaccia nel caso di oppositori politici - e sono le cicatrici che ricevono sui tentativi di raggiungere il vecchio continente attraverso i boschi e i monti. “Purtroppo non è una storia nuova e balza agli onori della cronaca quando brucia un campo oppure quando la temperatura scende al di sotto dello zero”, denuncia Mannocchi, che precisa le proporzioni del fenomeno: “Parliamo di circa 6500 persone ospitate in strutture ufficiali in Bosnia Erzegovina, a fronte di altre 3000 che vivono al di fuori dei centri di accoglienza in campi improvvisati. Quindi, circa 10mila persone: una situazione ampiamente gestibile dall’Europa e anche dalla Bosnia stessa”.
La generosità che si trasforma in stanchezza
“La popolazione bosniaca – continua la giornalista - fin dall’inizio ha mostrato una grande generosità, del resto la guerra qui è una memoria estremamente recente. Contemporaneamente, però, le istituzioni - nonostante avessero ricevuto dall’Ue enormi somme di denaro per attivare dei centri di accoglienza - hanno mancato nel trovare luoghi idonei”. Lipa, a 40 chilometri dalla cittadina di frontiera di Bihac, ne è la dimostrazione: un campo realizzato nella scorsa primavera, pensato come soluzione temporanea per garantire un alloggio ai migranti rimasti fuori dai centri e contenere così la diffusione del contagio. Qui le temperature sono di meno 7 gradi, non c’è acqua corrente né luce, nemmeno a distanza di un anno dalla costruzione. “Questo genera alla fine, dopo mesi o anni, tensioni sociali inevitabili e laddove pure c’era stata generosità, è subentrata più severità e stanchezza”.
Mancano soluzioni strutturali
“La Bosnia, come la Turchia o la Libia o per certi aspetti gli hotspot sulle isole greche sono la cartina al tornasole di una grande ipocrisia da parte dell’Europa”, lamenta ancora Mannocchi. “Se le risposte non vengono date per anni si genera una crisi. L’esempio del campo di Moria è emblematico. Sono tutte tensioni figlie di una medesima visione”, e cita l’episodio analogo accaduto una settimana fa in Libano, a Tripoli, dove la popolazione locale ha dato fuoco a un campo profughi siriano. “Ciò che l’Italia, come antesignana, ha fatto con i corridoi umanitari, quella è la soluzione – scandisce - unendo l’impegno della società civile, dell’associazionismo, delle Chiese e dei governi”.
Sperare nei giovani
Francesca Mannocchi conserva nel cuore la storia di Mansur, un ragazzo diciottenne “con la fierezza e la saggezza dell’uomo adulto e l’incoscienza del ragazzo”. Aveva lasciato l’Afghanistan cinque anni prima da solo. Esempio classico di una famiglia intera che ‘investe’ sulla migrazione del più forte e giovane che, come apripista, tenta la fortuna a vantaggio, un giorno, del resto dei familiari. “Quando lo abbiamo visto allontanarsi verso la montagna ci siamo chiesti che fine avrebbe fatto. Se ce l’avrebbe fatta”.
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