Pandemia ed etica della comunicazione
Walter Gatti
«Io credo che eticamente tutti debbano prendere il vaccino. È un’opzione etica, perché tu ti giochi la salute, la vita, ma ti giochi anche la vita degli altri»: l’ha detto Papa Francesco lo scorso 10 gennaio, alcuni giorni prima di vaccinarsi. Un messaggio chiaro lanciato a tutti dal Pontefice, compresi gli incerti e i “no vax”, gli operatori sanitari e le istituzioni, una voce che si è inserita con forza morale nel periodo così complesso che l’Italia e il pianeta stanno vivendo.
Cosa ne pensa delle parole del Papa Giorgio Palù, presidente dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), l’agenzia regolatoria che in Italia autorizza (o meno) l’ingresso e la circolazione dei farmaci? «Condivido la posizione espressa dal Papa a tal punto che l’ho sempre sostenuta anche nella mia attività accademica — risponde Palù —. L’etica si sposa con la deontologia, medica e sanitaria. La vaccinazione è un dovere, ha affermato il Papa, e noi dobbiamo provare a calare la sua esortazione nella nostra realtà che è fatta di scienza, di persone, di organizzazioni. Ecco, credo che il suo messaggio sia arrivato in modo corretto a tutti: una persona può anche avere il diritto di rifiutare un vaccino sulla base dell’autonomia e responsabilità individuale, però l’individuo non può pensare solo a se stesso, specie di fronte ad una evenienza pandemica come l’attuale, deve pensare primariamente al bene della società e di quanti ci circondano perché portiamo tutti, tutti insieme, la responsabilità di noi stessi e del nostro pezzo di mondo».
Bioetica e scienza sempre più in parallelo
Virologo di fama internazionale, già docente a Padova, Boston, Philadelphia e Londra, Palù (classe 1949) è un veneto dallo stile britannico. Già presidente della Società europea di virologia, autore di oltre 600 pubblicazioni scientifiche, elegantissimo ed appassionato di ciclismo (“soprattutto di montagna”, dice lui), il presidente dell’Aifa conferma che le parole del Papa sono puntuali anche per chi fa scienza e ricerca: «I vaccini della nuovissima generazione, quelli di Pfeizer e Moderna che oggi stiamo utilizzando, sono un prodotto di biologia sintetica basati su Rna messaggero, allestiti a tempo di record, duttili da modificare in base all’esigenza biologica, una scoperta eccezionale che probabilmente porterà a un premio Nobel. Ci troviamo quindi di fronte ad un risultato scientifico di portata enorme. Ma anche lo scienziato deve rifarsi a principi bioetici: in primo luogo quello di curare sulla base delle conoscenze la salute del paziente (beneficienza), quello di responsabilità nei confronti di chi non è in grado di operare scelte, quello di non maleficienza — che è da sempre il valore di riferimento della medicina, “primum non nocere” — e quello di giustizia, che si esprime, come affermavano i padri della bioetica Beauchamp e Childress, nell’agire a favore di chi ne ha più bisogno. In questo senso l’obiettivo è salvare le vite, per cui ovunque si sta dando la priorità ai più anziani e ai più esposti al rischio. Oggi più che mai i principi bioetici si sposano con i principi scientifici e il Papa ha proprio centrato con poche parole questo contesto».
Vaccini, opinioni e confusioni
Eppure, per quanto etica e condivisibile, la corsa al vaccino è stata attaccata (come spesso accade dai tempi della Sars e della H1N1) da negazionisti del covid-19, dal popolo no vax (che ha i suoi esponenti e i suoi “clan”) e da un popolo variegato di complottisti: come mai la scienza non riesce a dare risposte scientifiche ed etiche definitive a questi ambienti? «Il mondo cambia ed il mondo della comunicazione cambia con lui», è la considerazione del presidente Aifa, «il vaccino è assolutamente sicuro, ma il principio della “democrazia dei contenuti”, diffuso a partire dall’affermazione della cultura-web, fa sì che ogni opinione abbia lo stesso peso: principio davvero pericoloso, perché non credo si possa mettere sullo stesso piano in merito alla fisica teorica il parere dell’uomo della strada e quello di Einstein. Personalmente credo che molta informazione mediatica, ivi inclusi i talk show dei vari canali televisivi, quando cercano di produrre o spettacolarizzare la notizia partendo dalle opinioni più disparate che viaggiano nell’etere o costituiscono il gossip imperante, finiscano spesso per confondere le idee a chi legge, ascolta o è spettatore, lo distraggano dalla realtà che si fonda su fatti, numeri, evidenze documentate ed anche eventi probabilistici ma sempre interpretabili con rigore scientifico».
Tempo del web e tempo del rigore
Sicuramente c’è l’eccesso di sensazionalismo comunicativo, ma anche il mondo scientifico ci sta mettendo del suo, con quel protagonismo e iperpresenzialismo che dallo scorso marzo imperversa su canali televisivi e pagine di giornali. Ogni giorno gli “esperti” sono interpellati dai giornali, partecipano alle trasmissioni, si scontrano in varia misura sui temi della lotta al covid-19. Spesso ingenerando polemiche interne al mondo scientifico, siparietti per nulla edificanti. Forse serve un mea culpa da parte degli “esperti”? «È purtroppo vero — considera Palù —, una volta non si interpellavano gli scienziati, oggi lo si fa e questo è un bene per una corretta informazione: ma chi fa seriamente comunicazione scientifica dovrebbe saper scegliere l’interlocutore in base al curriculum ed alle problematiche in campo che, relativamente a covid-19, sono principalmente di sanità pubblica e di ordine clinico, virologico, epidemiologico, statistico. Oggi, dato che l’emergenza è virale, abbiamo scoperto una moltitudine di virologi, tutti si accreditano o vengono interpellati come tali anche persone totalmente ignote alla comunità scientifica ed al settore disciplinare. Negli Usa parla solo un esperto riconosciuto, Fauci, come anche in Inghilterra o in Germania sono invitati solo specialisti di riferimento. Da noi parlano tutti e di tutto, di virus, di vaccino, di terapie intensive, di lockdown, di zone rosse o arancioni, di chi vaccinare e chi no. Il mondo scientifico e con questo i responsabili della divulgazione scientifica dovrebbero autoregolarsi ed attenersi a dei formati chiari di esposizione, per fornire notizie e interpretazioni con metodo rigoroso senza sovrapposizioni quotidiane. Va però detto che anche tra noi c’è la voglia di stare sotto i riflettori. Il risultato finale è che si crea un popolo di tifosi di questa o di quell’altra opinione. La causa ultima credo purtroppo stia nel fatto che il mondo occidentale ha in parte abdicato alla cultura storico-filosofica di cui la nostra civiltà era portatrice, una carenza che ormai si riscontra anche nel nostro Paese: nessuno si interroga più criticamente su nulla, nessuno si chiede se è vero quello che viene dichiarato, l’informazione viene data in pasto dalla rete e subito assimilata. Il ragionamento richiede tempo e pone domande, e noi non abbiamo più voglia di ragionare, né tempo per farlo, è più comodo internet. Quindi crediamo a tutto e al contrario di tutto. La pandemia dovrebbe aver insegnato che serve anche un’etica comunicativa, ma forse non siamo ancora pronti».
Un forte sistema territoriale
Nel frattempo le curve epidemiche sembrano in leggera flessione, e si attende che il vaccino, appunto, contribuisca al contenimento dei casi. Possiamo iniziare a chiederci cosa abbiamo imparato e cosa stiamo imparando da questa pandemia? «Una cosa prima di tutte le altre: che questa era prioritariamente un’emergenza di sanità pubblica che come tale andava affrontata dall’inizio sul territorio, ed in secondo luogo un’emergenza assistenziale; il nostro Servizio sanitario nazionale andrebbe pertanto ripensato», risponde il presidente dell’Aifa. Questo lo dicono tutti, da anni. Cosa ha aggiunto nello specifico la crisi pandemica? «Guardi: ci sono Regioni che hanno disinvestito in medicina territoriale e che, innestando un’estrema competizione tra pubblico e privato, hanno costretto la sanità a misurarsi sulle performances ospedaliere. Così si è persa la battaglia». E dunque come si vince la battaglia? «Per mettere a frutto la lezione dobbiamo attrezzarci mettendo a punto un forte sistema di continuità territoriale», risponde Giorgio Palù, «in grado di governare sia le attività abituali che le emergenze e le nuove pandemie. Questo significa avere attrezzature diagnostiche e linee guida di terapia che mettano subito all’erta i medici di medicina generale, trattando urgentemente i pazienti senza intasare gli ospedali. Bisognerebbe inoltre dotarci di un sistema logistico di preparedness and responsiveness verso nuove e possibili minacce future. In pratica noi — che abbiamo sofferto come sappiamo del mancato aggiornamento di un piano strategico — abbiamo bisogno di una struttura dedicata dove operino non solo epidemiologi, virologi, clinici, ma anche bioeticisti, psicologi, economisti, statistici, sociologi, pronti a intervenire in emergenze che impattano sulla sanità ma hanno anche implicazioni economiche e sociali. Avremmo inoltre la necessità di finanziare la creazione di centri di ricerca e produzione di farmaci e prodotti innovativi anche per dare una prospettiva ai tanti giovani che scelgono di trasferirsi all’estero per fare scienza».
Polemiche e contagi, protagonismi televisivi, polemiche attorno all’Oms e dedizione degli operatori sanitari: mentre tutto questo accadeva, il professore ha accettato la proposta di diventare presidente dell’Aifa. Cosa ha pensato il professore dall’aplomb britannico mentre accettava l’incarico proprio nel momento peggiore della seconda ondata dell’emergenza Sars-CoV2? «Ho pensato al mio Paese — dice senza troppe riflessioni Giorgio Palù —. Lo sento come un dovere verso i cittadini. Ho sempre cercato di dare il meglio per il progresso e l’affermazione della scienza e della virologia, per l’università, per le esigenze dei pazienti e questo incarico l’ho recepito nella stessa dimensione. Inoltre ho visto che il ministro Roberto Speranza merita un appoggio professionale. Per questo ho accettato, pur nella complessità di questo periodo. Mi son dato l’obiettivo di dare tutto quanto è nelle mie possibilità e anche questo è un imperativo etico».
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