Libano, la protesta figlia di fame e disperazione. Padre Zgheib: sta crollando lo Stato
Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
Crisi economica, disoccupazione, Covid-19: i drammi del Libano che hanno portato agli scontri di ieri a Tripoli, grande città del nord, tra le più povere del Paese, tra manifestanti e forze dell’ordine, con l’incendio del Comune, centinaia di feriti e almeno due morti. Tripoli è stata epicentro delle proteste antigovernative che hanno segnato la fine del 2019 e i primi mesi del 2020, e che si sono riacutizzate dopo le tragiche esplosioni al porto di Beirut, il 4 agosto scorso, con 200 morti e circa seimila feriti. Il Paese è in bancarotta da marzo 2019 il crollo del potere di acquisto della moneta locale, che ha perso fino all'80 per cento del suo valore, ha travolto la classe media moltiplicando il numero di poveri.
Appello dei capi religiosi per il popolo e la salvezza del Paese
In questo scenario, ieri, il monito alla politica perché si impegni a trovare una via di uscita dalla crisi, è arrivato dai principali rappresentanti delle comunità cristiane e musulmane libanesi. La richiesta è a mettere da parte i veti incrociati e a dare al Paese un governo di “salvezza nazionale” per evitare il collasso e risparmiare la popolazione da ulteriori sofferenze. L’appello è sottoscritto, tra gli altri, dal Patriarca maronita Bechara Boutros Rai, dal Mufti della Repubblica libanese Abd al-Latif Derian, dallo Sheikh Abd al-Amir Qabalan, capo del Consiglio supremo sciita, dallo Sheikh druso Akl Naim Hassan e dal metropolita greco-ortodosso di Beirut, l’arcivescovo Elias Audi. I capi religiosi chiedono che i leader e gli schieramenti politici rinnovino il loro impegno di fedeltà nei confronti dell’identità nazionale libanese, delineata nella Costituzione e connotata dallo spirito di coesistenza e dall’impegno comune a tutelare la dignità umana e la libertà, rifuggendo dai conflitti e dalle alleanze con forze esterne per far prevalere interessi di parte. La crisi in cui si dibatte il Libano – rimarcano – rischia di essere fatale per il Paese proprio perché non è una semplice emergenza di natura politica, ma affonda le sue radici in una grave crisi morale”. Padre Rouphael Zgheib, sacerdote maronita, Direttore delle Pontificie opere missionarie libanesi e docente di teologia all’Università dei gesuiti di Beirut:
R. – Le manifestazioni di Tripoli sono un segnale che è in atto un crollo dello Sato libanese. Questo è molto pericoloso perché, dopo l'esplosione di Beirut – che ha avuto conseguenze sociali in tutto il Paese – e dopo anche la pandemia, il peso sociale è diventato troppo forte per il popolo, con uno Stato quasi assente. La zona di Tripoli è povera, è questo il problema e ancora lo Stato non si è mosso, lo ha fatto a livello di sicurezza per controllare questa situazione, ma non è intervenuto a livello sociale e umano, e questo lascia un sentimento di disagio molto forte in questa zona.
A livello politico i manifestanti di Tripoli sono stati definiti teppisti. Da quello che ci racconta lei si tratta soltanto di povera gente affamata …
R. – Sì, però in Libano, dietro le manifestazioni, ci sono sempre gli interessi politici, tutte le forze politiche che cercano di strumentalizzare la povertà della gente per guadagnare qualcosa, specialmente nella costituzione del governo che da 2-3 mesi non si nasce perché ogni partito politico vuole la sua parte. E non siamo usciti da questa logica: dopo un anno di manifestazioni, dopo la pandemia, dopo le esplosioni di Beirut, c'è ancora questa mentalità di condividere il guadagno, non dico il potere. Ci sono interessi politici, ma anche economici, dietro a questa lotta. Secondo me però ora le strumentalizzazioni non riescono, perché il peso della povertà. è più forte, il grido dei poveri è più forte della politica. L’area di Tripoli è stata sempre disagiata e tralasciata anche dai politici della zona che sono i più ricchi del Libano, non è la prima volta che ci sono degli scontri, perché questa gente è stata sempre strumentalizzata da queste forze politiche.
Qual è il ruolo dell’esercito?
R. – L’esercito cerca sempre di controllare la situazione, di salvaguardare la sicurezza nazionale, di non lasciare che cellule di fondamentalisti si infiltrino in questa zona. L’esercito cerca di rimanere neutrale, di non entrare in uno scontro, ecco perché ieri non è intervenuto direttamente, per non entrare in un confronto con questa gente, con il rischio di allargare queste manifestazioni a tutto il Paese.
Lei faceva riferimento al rischio fondamentalista, altro grave aspetto. Questa situazione potrebbe favorirne l’infiltrazione…
R. – Certo, quando il corpo nazionale è molto debole tutti i virus cercano di infiltrarsi, così è dentro il tessuto libanese, per poterne approfittarne e seminare un po' il caos. C’è questa paura, perché qualche mese fa è stata scoperta una cellula, un gruppo fondamentalista, proprio in quella zona, che cercava di seminare anche il caos.
Questa cellula a chi si collegava?
R. – Era collegata ad Al Qaida.
C’è stato un appello dei capi religiosi affiche si mettano da parte i veti incrociati per dare al Paese un governo di “salvezza nazionale” per evitare al popolo ulteriori sofferenze. Quanto possono servire questi richiami, non solo di fronte al popolo, ma di fronte alle autorità politiche?
R. – Sinceramente non lo so, però qualcuno deve pur parlare alla coscienza, qualcuno deve alzare la voce di fronte a questi politici che non si saziano mai del potere e del sangue della gente, per dire di finirla, che bisogna superare questo confronto per costituire questo governo, perché siamo davanti ad un bivio storico, molto importante. Se non prendiamo in mano la sorte, il destino del nostro Paese, sarà qualcun altro a farlo. Diciamo che davanti a noi c’è una occasione storica, per una volta, forse, occorrerebbe lasciare da una parte gli interessi politici regionali per costruire un Paese neutrale, come dice il nostro Patriarca, una neutralità, diciamo attiva, che si distacca da tutti gli interessi per fare, per una volta, l’interesse della nazione.
Qual è la sua speranza e quali sono, soprattutto, le sue paure?
R. – Io spero che tutta la sofferenza che ancora viviamo dentro il nostro Paese possa far nascere un Libano nuovo, su fondamenta più solide. Questa è la mia speranza e, secondo me, è possibile perché il Libano è stato sempre così, è un segno di speranza, noi viviamo sotto il segno della speranza e viviamo in questa speranza, però la paura c'è sempre di precipitare dentro un caos completo.
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