La pandemia in Congo: vincere lo scetticismo con una informazione corretta
Michele Raviart - Città del Vaticano
A fronte di ventimila casi certificati e di poco più di 600 decessi certificati, la malattia di Covid-19 potrebbe sembrare non essere una priorità per la popolazione della Repubblica Democratica del Congo, vasto Paese in cui vivono oltre 80 milioni di persone. Il milione e trecentomila casi del non lontano Sudafrica, dove i morti sono stati 37 mila e si è sviluppata una variante del virus particolarmente contagiosa, testimoniano come nessun Paese possa sentirsi veramente al sicuro dalla pandemia.
Coprifuoco e mascherine
In Repubblica Democratica del Congo è obbligatorio indossare mascherine all’aperto ed è in vigore il coprifuoco dalle 21 di sera alle cinque di mattina e scuole e università sono chiuse. Il rischio tuttavia, è che senza una diffusa opera di testimonianza, la malattia possa essere sottovalutata o addirittura negata dando spazio a ipotesi complottistiche. Lo testimonia a Vatican News il sacerdote gesuita Ghislain Tshikendwa, docente di Scienze sociale all’università della capitale Kinshasa:
Lo scetticismo della popolazione
“Il fatto che non vediamo i morti come li vediamo altrove fa dubitare della realtà di questa malattia qui. Prima che venisse segnalato il primo caso, le persone vivevano nella paura semplicemente perché le immagini dei Paesi occidentali erano drammatiche”, spiega padre Ghislain. “Va anche detto che la comunicazione sulla malattia non è stata molto professionale. Ciò ha fatto credere alla gente che la malattia non esistesse e che il governo stesse dichiarando casi di Covid solo per avere finanziamenti".
Disinformazione e cultura tradizionale
Per padre Ghislain, che ha studiato la concezione della malattia nelle tradizioni popolari del Paese, questo scetticismo ha delle radici culturali radicate. In Repubblica Democratica del Congo difficilmente sofferenza e malattia, spiega, sono considerate cause solamente naturali, soprattutto quando si parla della morte dei giovani. “C’è sempre una causa invisibile”, sottolinea, legata alla magia. “Accettare una malattia come il Covid-19 significa presupporre che c'è qualcuno che manipola il virus”. Anche grazie alle fakenews diffuse attraverso i social network, in quest’ottica va interpretata anche una generica ostilità nei confronti del vaccino. Succede allora che la gente pensi addirittura che il "vaccino sia per uccidere le persone o per diffondere la malattia” ribadisce il gesuita, sottolineando come la popolazione, come spesso accade, si rifugia nella medicina tradizionale.
L'importanza della testimonianza
A padre Ghislian stesso è stato diagnosticato il coronavirus durante una degenza in ospedale per un’altra malattia. Come lui, altre persone stanno testimoniando la loro esperienza con la malattia. “Credo che a partire da queste testimonianze la gente mano a mano crederà che veramente esiste questa malattia e che questa è una realtà. Ci sono dei professori universitari, miei colleghi, soprattutto quelli che avevano una certa età e problemi come il diabete o l’ipertensione sono morti”. “Credo che la gente ha bisogno di un’autorità morale in cui crede veramente per dare un messaggio che aiuti la gente a comportarsi con responsabilità. Penso che la nostra Chiesa, seguendo un po’ ciò che il Papa sta facendo per la promozione del vaccino, dovrebbe veramente lavorare in questo e credo che lo fa cercando di dire alla gente di fare attenzione, che la malattia esiste, non è una bugia”.
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