Il Papa in Iraq e la valorizzazione delle minoranze
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Una delle immagini con cui Francesco in Iraq ha descritto la Chiesa locale è quella del tappeto, per dire della sua ricchezza e varietà. Fili diversi e preziosi tessuti con pazienza e cura. Non un monolite ma una realtà sociale ed ecclesiale estremamente composita è quella che abbiamo potuto conoscere attraverso il suo Viaggio Apostolico. Su quanto sia stato calzante questo riferimento, si sofferma la giornalista Chiara Zappa, esperta dell'area, un’attenzione privilegiata ai diritti umani e numerosi libri dedicati allo studio delle minoranze, tra cui "Anime fiere. Resistenza e riscatto delle minoranze in Medio Oriente" (Edizioni Terra Santa).
R. - Una bella immagine, quella del tappeto, bella come quella del mosaico, ma forse addirittura di più, nel senso che nel tappeto i fili per creare il disegno si devono incrociare tra di loro. Quindi dà proprio l'idea dell'interconnessione di tutti i pezzi così diversi di questa società che è davvero forse la più plurale del Medio Oriente, dal punto di vista delle etnie e soprattutto delle fedi. Un patrimonio unico, trattato negli ultimi anni come un fardello prima dalla dittatura di Saddam Hussein, poi con il fondamentalismo dell'Isis che ha portato la nazione all'apice della fobia nei confronti di questa diversità. Si pensi agli Yazidi, ma anche a minoranze semisconosciute ai più, come i Mandei: a Ur dei Caldei forse per la prima volta è stato offerto un palcoscenico internazionale un esponente di questo gruppo attraverso la testimonianza della donna che ha salutato il Papa all'incontro interreligioso. Questi gruppi sono veramente stati, e di fatto restano ai margini della società irachena.
Come custodire questa ricchezza di pluralità?
R. - Questa è stata la sfida di tante persone di buona volontà, soprattutto negli anni del dopo Isis quando la situazione del tessuto sociale iracheno era veramente a pezzi. Gruppi, persone di buona volontà, associazioni, porzioni della società civile - purtroppo raramente esponenti politici – sono stati molto attivi nel cercare di creare presidi di riconciliazione.
Qualche esempio di impegno perché questo patrimonio non si disperda?
R. - In ambito ecclesiale, i domenicani di Mosul portano avanti il loro impegno con la base per la ricostruzione fisica, emotiva, morale e psicologica della comunità cristiana. Agevolano la partecipazione di ragazzi musulmani con cristiani e ragazzi di qualunque confessione o appartenenza etnica per la riedificazione delle chiese, così come di centri giovanili. Perché la grande questione oggi dell'Iraq riguarda proprio il lavoro. Il concetto chiave è di essere tutti iracheni allo stesso modo. Poi c'è per esempio la fondazione Masarat, a Baghdad, il cui direttore è assai esperto di minoranze e nella sua vita accademica e di attivista da oltre dieci anni si occupa della valorizzazione di questo patrimonio. Qualche anno fa, quando noi lavoravamo su questo tema, mi raccontava che la gente non comprendeva fino in fondo la ragione per cui lui si ostinava a far conoscere la storia degli Shabak, degli Zoroastriani, degli Ebrei. Sembrava agli occhi dei più un tentativo di dividere il Paese. Proprio l'avvento dello Stato islamico ha invece indotto la gente a capirne il motivo: non parlare delle minoranze ogni giorno favorisce la diffusione di pregiudizi e stigmi. Solo ora, dunque, il lavoro di formazione dei cosiddetti 'ambasciatori del dialogo' viene ritenuto importante.
Bisogna partire dai giovani e creare iniziative comuni su fronti diversi che coinvolgano ragazzi e ragazze di tutto il territorio per rilanciare un nuovo Iraq. Questo si ricollega molto alla preoccupazione del Papa – ribadita anche in questo Viaggio – di non sottovalutare le minoranze, e quella cristiana, ovviamente, dando ad esse diritto di cittadinanza con eguali diritti e doveri. Del resto, dalla base del popolo c'è ora il richiamo forte a superare il settarismo - nell'ottobre del 2019 c'è stata una ondata di proteste in questa direzione – affinché la politica non sia più ostaggio di appartenenze etniche e garantisca diritti e servizi per tutti, dall'elettricità all'acqua potabile (Bassora era la Venezia d'Oriente, ora non c'è più acqua).
La componente femminile che ruolo sta assumendo?
R. - E' stato bello sentire il Papa che io credo abbia dato un abbraccio virtuale a tante componenti vulnerabili della società irachena. Mi è piaciuta molto la sottolineatura del ruolo delle donne in questa società e anche il riconoscere quanto fanno e hanno fatto in situazioni spesso di inferiorità e di difficoltà. L'associazione Al-Firdaws, basata a Bassora, nel sud dell'Iraq a maggioranza sciita, da tempo molte donne lavorano insieme ai leader locali di altre religioni e capi tribù con iniziative molto interessanti per combattere la cultura patriarcale che è molto forte e trasversale alle varie confessioni, soprattutto nelle campagne. Aumentare l'istruzione, dare consapevolezza alle ragazze dei danni dei matrimoni forzati in alcune zone, deradicalizzare i giovani arruolati in milizie: questo il lavoro in cui sono impegnate.
Il Papa è tornato a citare gli Yazidi invocando la fine delle discriminazioni...
R. - Il Papa ha riconosciuto le sofferenze anche di questo gruppo. A questo proposito, proprio all'inizio di questo mese, il governo iracheno ha finalmente riconosciuto una legge molto attesa dedicata alle donne yazide sopravvissute al genocidio. Ridotte in schiavitù, hanno subìto gravi abusi. Questa legge garantisce delle forme di compensazione ai danni subìti: terreni o spazi dove vivere, posti di lavoro, possibilità di reinserirsi nella società. Ci sono ancora dei passi da fare, ma credo che sia un segno di speranza.
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