La guerra non spegne le speranze dei rifugiati siriani in Libano
Elvira Ragosta – Città del Vaticano
Sono un milione e mezzo i rifugiati siriani giunti in Libano in oltre 10 anni. Persone, famiglie, costrette a scappare, a lasciare le loro case, e che ora si trovano ad affrontare le difficoltà di un Paese che li ha accolti ma che sta attraversando una crisi economica e politica importante. Sono giunti da ogni zona della Siria a ondate successive e gli arrivi continuano ancora oggi. “Tanti di loro hanno raccontato di essere scappati in Libano perché non volevano uccidere né essere uccisi; sono scappati da una guerra e non tornano in Siria perché le condizioni per cui sono scappati sono ancora tutte lì, purtroppo”. Racconta così a Vatican News Alberto Capannini, responsabile di Operazione Colomba, corpo non violento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII che in Libano assiste stabilmente le famiglie di rifugiati nel campo profughi di Tel Abbas, a soli 5 chilometri dal confine siriano. “Sono persone – aggiunge - che hanno sperato che la guerra sarebbe durata poco, che sarebbero potuti ritornare a casa loro, ma la casa loro non c'è più”.
Le condizioni dei siriani in Libano
Se fino a qualche mese fa per i rifugiati ospitati nei campi non sussisteva il timore di non poter mangiare, la situazione è recentemente peggiorata. Nel Paese, che ha una popolazione di poco meno di 6 milioni di abitanti, l’inflazione altissima ha ridotto al minimo il potere di acquisto delle famiglie e la crisi ha avuto ripercussioni anche sulle condizioni dei rifugiati. “All’impossibilità di tornare a casa, di trovare un lavoro, di avere i documenti, di andare a scuola per il 40% di bambini, ora si aggiunge anche il problema della fame. Quindi - prosegue il responsabile di Operazione Colomba - se sei profugo siriano in Libano la vita è molto difficile, principalmente non hai un futuro perché il Libano non potrebbe e non potrà accoglierli e loro non possono tornare in Siria e questa specie di limbo, questa condizione è il tuo presente, il tuo domani, il tuo dopodomani”. La speranza di poter tornare nel loro Paese resta forte e “il loro sogno in questo momento è che le condizioni in Siria migliorino e vorrebbero tornare a casa loro”. La speranza di poter tornare nel loro Paese resta forte e “il loro sogno in questo momento è che le condizioni in Siria migliorino e vorrebbero tornare a casa loro”.
La loro proposta di pace
Nei giorni scorsi a Bruxelles, nel corso di una conferenza di alto livello su migrazione e asilo ospitata dal Parlamento europeo e portoghese, operazione Colomba ha presentato il proprio lavoro in Libano, i corridoi umanitari e una proposta di pace scritta dai rifugiati siriani in Libano, che chiede la creazione di una zona sicura di rientro e chiede che questi territori non siano lasciati in mano a forze terroristiche e ad attori armati. “La proposta di pace – spiega Capannini - è nata nei campi profughi. Abbiamo pensato che oltre a vivere al campo e aiutare queste persone nella vita quotidiana, per esempio ad attraversare un check point per andare in ospedale senza essere arrestati, oltre ad aprire dei corridoi umanitari per portare le persone più fragili in Europa, dovevamo dare voce a questa proposta. È forse una proposta che viene dal futuro, ma in realtà è un bisogno molto presente, molto pressante, e ci chiedevamo: se l'Europa non è la casa per la proposta di questo tipo, chi può esserlo?”
I corridoi umanitari
Il corpo non violento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII partecipa all’organizzazione dei corridoi umanitari, grazie ai quali qualche centinaio di siriani sono arrivati in Italia. Un’iniziativa nata proprio nel campo di Tel Abass nel 2016 con la Comunità di Sant’Egidio e la federazione delle Chiese evangeliche e dettata dalle difficoltà espresse da molti dei rifugiati, che erano pronti ad intraprendere pericolosi viaggi in mare a bordo di semplici barche per potere raggiungere l’Europa. “Principalmente -conclude il responsabile dell’operazione Colomba - cerchiamo di capire quali sono le persone più fragili, a cui quest'opportunità salverebbe la vita, quindi contattiamo i gruppi e le comunità locali italiane disponibili all’accoglienza e cerchiamo di garantire un anno, un anno e mezzo, a volte anche di più, di sostegno, in modo che le persone imparino la lingua si integrino”.
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