Campi profughi in Siria, la visita della Croce Rossa: troppi bambini in pericolo
Marco Guerra – Città del Vaticano
Dopo sei giorni di combattimenti le forze curde hanno annunciato di aver ripreso il controllo della prigione di Gweiran, nella città di Hasakeh, nella Siria nord-orientale, che era stata attaccata da circa cento militanti del sedicente Stato Islamico per liberare migliaia di ex jihadisti.
Tremila jihadisti si sono arresi
"L'intera prigione è ora sotto controllo", ha detto Farhad Shami, portavoce delle forze democratiche siriane sostenute dagli Stati Uniti. Shami ha riferito che circa 3.000 detenuti si sono arresi. Il tentativo di fare evadere i presunti terroristi dal carcere e gli scontri che ne sono seguiti hanno provocato oltre 180 vittime. I curdi hanno escluso che qualcuno sia riuscito a fuggire ma all'Osservatorio siriano per i diritti umani risulta invece che alcuni detenuti siano evasi. Sempre secondo l’Osservatorio delle vittime, 124 sono jihadisti, 50 sono militari curdi e 7 civili. Gli abitanti della città sono stati costretti a lasciare le loro case, alimentando la nutrita popolazione di profughi già presente nella zona. Al momento non si hanno notizie delle condizioni degli 850 minori detenuti nella struttura carceraria, nei giorni scorsi l’Unicef aveva lanciato un appello per chiedere il loro immediato rilascio mentre testimonianze giunte dall’interno dell'istituto di pena hanno riferito di numerosi ragazzi uccisi nelle sparatorie.
Carboni (Croce Rossa): la Comunità internazionale intervenga
Il carcere della città Hasakeh si trova nella stessa regione del nord-est in cui sono stati allestiti i campi profughi di al-Hol e al-Roj in cui da tre anni sono trattenute decine di migliaia di famigliari degli ex jihadisti del sedicente Stato Islamico. Queste strutture e il carcere di Gweiran lo scorso giugno sono state visitate da Fabrizio Carboni, direttore generale della Croce Rossa Internazionale per il Medio Oriente. In queste aree la Croce Rossa opera in prima linea per l’assistenza umanitaria dei profughi e della popolazione locale:
Direttore Carboni la Croce Rossa internazionale opera nelle aree interessate dall’attacco del sedicente Stato Islamico, che notizie avete?
Importante è capire che la città di Hasakeh, deve si trova il carcere, ricade in una delle aree più afflitte dalla guerra in Siria: in questa regione abbiamo Raqqa che è completamente distrutta, Deir el-Zor ed altre città che erano sotto il controllo dell’Is. Poi, vicino, abbiamo il confine con la Turchia e quindi la presenza dell’esercito turco, insomma è una zona molto complessa con tanti attori armati. Sempre in questa regione del nord est della Siria ci sono diversi campi profughi che ospitano donne e bambini che hanno avuto legami con lo Stato Islamico. In questa cornice troviamo il carcere che è stato assaltato, dove sono detenuti gli ex miliziani del califfato. La conclusione della guerra con l’Is non ha portato vera sicurezza, questa può esserci solo con il lavoro, la stabilità e la giustizia, quindi non mi sorprendono queste fiammate di violenze, perché in queste aree c’è un’emergenza umanitaria incredibile.
Lei ha visitato i campi profughi del nord-est lo scorso giugno, perché le organizzazioni umanitarie sono preoccupate per le condizioni dei minori?
Le condizioni dei bambini e delle donne nei campi di al Hol e al Roj deve richiamare la responsabilità di tutta la comunità internazionale, non si può pensare che sia un problema di qualcun’altro. Certo è difficile, c’è un prezzo politico da pagare, c’è una dimensione legata alla sicurezza ma non guardare il problema non permette di risolverlo. Il campo di al-Hol ospita 60mila persone e 40mila sono bambini sotto 12 anni, sono tre anni che vivono nelle tende senza sapere quello che gli succederà domani. In questi giorni ci sono tempeste di neve in quella zona, i nostri operatori sono disperati, la neve è entrata nelle tende. La soluzione per queste persone va trovata a livello internazionale. Non dobbiamo mai dimenticare che questi bambini sono vittime, questo deve essere chiaro a tutti.
Si può pensare ad un percorso di reinserimento nella società di queste famiglie? Perché i governi europei non riaccolgono i cittadini con il passaporto europeo?
La gente deve sapere che le famiglie di origine europea sono poche, una minoranza, circa 2000 persone. Si parla degli europei in questi campi come la situazione più difficile da risolvere ma non lo è, perché i Paesi Ue hanno risorse e istituzioni forti per gestire queste persone; la questione più complicata è quella dei 30mila siriani e dei 30milia iracheni presenti in questi campi. Io capisco la paura, ma penso che gli Stati europei, che hanno sempre difeso i diritti umani in tutto il mondo, devono applicare questi principi anche a loro stessi. I valori umanitari si applicano soprattutto nei confronti dei nemici.
C’è quindi un problema legato ai combattenti provenienti da Siria e Iraq…
Ci sono anche jihadisti provenienti dall’Africa e dell’Asia centrale, anche in questi casi la situazione è complessa. Quello che voglio dire è che pensare solo agli ex combattenti europei e non gestire tutta questa situazione porterà problemi di sicurezza un domani. Che succederà ad un giovane dopo 10 anni in queste condizioni? Come vedrà il mondo?
C'è il rischio che questi campi possono essere nuovi serbatoi per il reclutamento di estremisti?
No, questa equazione non mi piace, è una forma di stigmatizzazione di questi bambini. Chi si trova in questi campi non deve diventare per forza un terrorista, la prima cosa a cui dobbiamo pensare è la sofferenza di questi bambini e di queste donne. Certo sarò difficile per loro diventare membri della società attivi se rimarranno ancora molti anni in questi campi.
Quali sono le emergenze e richieste più impellenti che rivolgete alla comunità internazionale?
L’attacco ad Hasakeh ha provocato 60mila sfollati, in un momento in cui fa molto freddo. La priorità è aiutare queste persone con coperte cibo e medicinali. Poi c'è bisogno di uno sforzo collettivo internazionale per decidere cosa fare con le donne, i bambini e anche gli ex combattenti. Noi non vogliamo l’impunità, chi si è macchiato di crimini deve essere giudicato, ma non possono rimanere così tante persone in un limbo, in un vuoto giuridico.
La Siria resta frammentata, qual è la situazione nel resto del Paese?
Il paradosso è che c’è meno violenza ma la situazione è più difficile che mai. Dopo 12 anni di guerra tutte le infrastrutture sono in condizioni pessime e non garantiscono più i servizi essenziali ai siriani. C’è una crisi finanziaria incredibile, l’80% dei siriani versa in una condizione di povertà estrema. Ogni volta che vado in Siria mi sembra che la guerra si sia fermata appena il giorno prima, è sempre distrutta, e ci vado tre-quattro volte l’anno. Noi delle organizzazioni umanitarie possiamo creare condizioni favorevoli ma la soluzione è politica e va quindi ricercata dalla politica.
Cosa vi preoccupa di più?
Non ci sono zone dove i siriani stiano bene, sono tutti in condizioni di vulnerabilità, poi ci sono zone più devastate e instabili come il nord-est e la regione di Idlib. La nostra preoccupazione più grande è la condizione delle infrastrutture, se non si interviene sulle infrastrutture della rete idrica c’è il rischio che prima o poi 10 milioni di persone restino senz’acqua.
Per concludere vorrei tornare sulla situazione nei campi profughi, quali sofferenze ha visto negli occhi di chi ci abita?
Prima di tutto il trauma, i bambini hanno visto cose che poche persone hanno visto nella loro vita. Non c’è una persona che non ha perso almeno una madre, un padre, un figlio o un fratello. Tutta questa gente ha vissuto violenze estreme, le condizioni psicologiche sono allarmanti. Poi c’è il vuoto dei servizi, manca la scuola, i bambini stanno intere giornate senza fare nulla. Infine ci sono le condizioni materiali drammatiche, parliamo di aree che non sono fatte per ricevere decine di miglia di persone. Il campo di al-Hol ha 60mila persone, in pratica una citta di medie dimensioni.
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