Gemma Calabresi: "Ho detto un’Ave Maria per gli assassini di mio marito"
ANDREA TORNIELLI
«Piena di quella sensazione mai provata, feci una cosa assurda, inspiegabile. Io, una ragazza di 25 anni a cui avevano appena ammazzato il marito, strinsi le mani di don Sandro e mormorai: “Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino”. E iniziammo…». Gemma, giovane mamma di due bambini piccoli e di un terzo in arrivo, quella mattina del 17 maggio 1972 ha appena saputo di essere rimasta vedova. Il marito, il commissario Luigi Calabresi, è stato ucciso un’ora prima davanti casa. I suoi assassini gli hanno sparato alle spalle. Lei, seduta sul divano della casa dei genitori, ha “incontrato Dio”: «A un certo punto sentii una sensazione fisica di immensa pace… Era come se qualcuno mi avesse presa in braccio, e io abbandonata in quell’abbraccio, capii, seppi senza ombra di dubbio, che ce l’avrei fatta, che la mia vita sarebbe stata sicuramente diversa, ma io e i bambini saremmo andati avanti, perché non ero sola».
C’è questo “miracolo” all’inizio del percorso di fede che porterà Gemma Calabresi Milite a perdonare gli assassini che le avevano ucciso il marito al culmine di una campagna ideologica di denigrazione e odio. Un percorso ora raccontato nel libro La crepa e la luce (Mondadori), che conosce anche umanissimi e comprensibili pensieri di vendetta, ma che le ha permesso di crescere i figli lontani dal rancore.
Fu la madre, quel 17 maggio, a suggerirle di usare per il necrologio del commissario, le parole di Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». «Mi erano sembrate parole potenti e opportune. Anzi di più: utili, forse, per allentare la tensione fortissima che sentivamo tutto intorno, per spezzare la catena di odio di cui un intero Paese era diventato prigioniero. Qualcuno, ne sono certa, allora avrà pensato che fossi un’ingenua e una stupida a usare quella frase d’amore, ma io non me ne sono mai pentita».
Per molti anni, Gemma rimane “immobile” quanto al perdono per coloro che l’avevano resa vedova. A cambiare questa situazione, anni dopo, sarà una delle lunghe chiacchierate di lei insegnante di religione con i bambini durante l’ora di lezione. Era morto qualcuno di famoso, e un bimbo le aveva chiesto: «Perché, maestra, quelli che muoiono sembrano sempre bravissimi? Davvero muoiono solo le persone che non hanno mai fatto niente di male?». «Gli avevo risposto che tutti, nella nostra vita facciamo cose belle e altre meno belle, ma quando non ci siamo più, vorremmo essere ricordati per quelle belle, e anche chi ci ha voluto bene è contento se sente parole belle su di noi». In quel momento, dicendo quelle parole, a Gemma Calabresi si spalancano gli occhi: «Anche chi aveva ucciso mio marito non era solo un assassino». Questa consapevolezza l’accompagna durante il lungo decennio dei processi. E il giorno della sentenza di primo grado, che condanna gli assassini, lei scoppia a piangere immaginando che cosa stesse provando in quel momento «una bella ragazza dai capelli rossi», la figlia di Ovidio Bompressi, colui che aveva premuto il grilletto.
Così, dopo un lungo cammino, Gemma entra in una chiesa e ripensa a quel necrologio del 17 maggio 1972, e «che, sentivo, era venuto il momento di fare davvero mio. Parlava di perdono. Padre perdona loro… Avevo scandito quelle parole ed era stato come se le ascoltassi per la prima volta. Come se le comprendessi come non le avevo mai comprese. Perché Gesù sulla croce chiede a Dio di perdonare chi gli ha fatto del male? Perché non lo dà lui, quel perdono? Improvvisamente avevo capito: perché Gesù, nell’istante di questa invocazione, è uomo. E, come uomo, sa che nel momento dell’abbandono, della disperazione, del dolore fisico e spirituale, nel momento del tradimento, non ha la forza di perdonare. Chiede allora al Padre di farlo al posto suo. Lasciando a noi uomini tutti, il tempo per arrivarci, il tempo del cammino».
«Una consapevolezza calda mi aveva avvolta: Dio aveva già perdonato le persone responsabili della morte di Gigi e io — conclude Gemma Calabresi — avevo tempo, il mio tempo per farlo. E non sarei stata sola in questa strada, perché — lo sapevo — lui sarebbe stato con me». Uscita dalla chiesa, è una donna improvvisamente liberata da un peso enorme. «Nel momento in cui mi sono liberata dell’idea di dover perdonare, ho cominciato davvero a farlo con il cuore, il silenzio, la preghiera». E può così concludere: «Il perdono è il miracolo che facciamo con le nostre mani, un ricucire che non ci rende immuni dal dolore e dalla rabbia e non toglie significato e senso alla giustizia, ma ci fa sentire parte di un tutto e per questo meno infelici e meno soli».
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